In caso di assegnazione a mansioni superiori, esiste il diritto al trattamento economico corrispondente. A tal fine è necessario che il lavoratore provi non solo di aver svolto in concreto le mansioni inscritte nel livello auspicato, ma che tale espletamento sia stato anche “pieno”, cioè tale da comportare un grado di responsabilità e autonomia a suo carico compatibile con la qualifica superiore

Il ricorrente citava in giudizio la società con la quale aveva instaurato un rapporto di lavoro subordinato, inizialmente assunto con la qualifica di ‘operaio’. Successivamente, fu disposta l’assegnazione a mansioni superiori: dapprima, adibito a ricoprire il ruolo di ‘impiegato’ e dopo qualche tempo, gli venne comunicato in maniera ufficiale di essere ammesso a svolgere ‘mansioni amministrative complesse con elaborazione concettuale’ senza essere, tuttavia, inquadrato nel livello corrispondente.

Chiedeva, per tali ragioni, che la società convenuta fosse condannata al pagamento di una somma a titolo di differenze retributive maturate, oltre alle ulteriori somme maturate e/o maturande, in ragione del superiore inquadramento, nonché al risarcimento del danno all’immagine professionale e alla carriera causato dall’illegittimo comportamento della controparte.

Il giudizio

La vicenda fu esaminata nel merito dal Tribunale di Bari, che ha accolto la domanda del ricorrente, affermando quanto segue:

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che “Al lavoratore che agisca in giudizio per ottenere il riconoscimento del diritto alla cosiddetta promozione automatica ex art. 2103 c.c. incombe l’onere di allegare e provare gli elementi posti a fondamento della domanda, cioè di aver svolto, in via continuativa e prevalente, per il periodo previsto dalle norme collettive o dallo stesso art. 2103 c.c., mansioni riconducibili al superiore inquadramento rivendicato” (Cass. 18418/2013).

Ai fini del riconoscimento del diritto rivendicato, dunque, spetta al lavoratore instante provare l’effettivo – oltre che prevalente e continuativo – espletamento delle attività lavorative rientranti nel livello superiore.

I precedenti giurisprudenziali

Nella valutazione relativa alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato il procedimento logico giuridico si articola in tre fasi successive: l’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, l’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, e il raffronto dei risultati di tali due indagini. (Cass. Sez. Lav. n. 4791 del 9.3.2004).

Il procedimento analitico ivi applicato, pertanto, mira da un lato all’accertamento dell’attività lavorativa di fatto svolta dal ricorrente nel corso del periodo lavorativo indicato e, d’altra parte, a un confronto puntuale e diretto con il contratto collettivo nazionale di categoria, allo scopo di indagare la sussistenza o meno del corretto inquadramento e, conseguentemente, l’adeguata e puntuale corresponsione di compensi da parte del datore di lavoro, in maniera proporzionata e corrispondente alla mansione espletata.

Un recente orientamento giurisprudenziale, inoltre, ha chiarito che “Nel giudizio relativo all’attribuzione di una qualifica superiore, l’osservanza del cd. criterio trifasico, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni” (Cass. Sez. Lav. sent. n. 18943 del 27.09.2016).

Pure condivisibile è l’affermazione secondo cui “condizione essenziale ai fini dell’accesso alla qualifica superiore è che sia dimostrato che l’assegnazione alle più elevate mansioni sia stata piena, nel senso che abbia comportato l’assunzione della responsabilità diretta e l’esercizio dell’autonomia e della iniziativa proprie della corrispondente qualifica rivendicata, coerentemente con le mansioni contrattualmente previste in via esemplificativa nelle declaratorie dei singoli inquadramenti, cui vanno poi raffrontate le funzioni in concreto espletate dal lavoratore interessato” (Trib. Milano 15.02.2013).

Alla luce di quanto sopra, non solo il lavoratore deve aver svolto in concreto le mansioni inscritte nel livello auspicato, ma tale espletamento deve anche essere stato “pieno”, cioè tale da comportare un grado di responsabilità e autonomia a carico del lavoratore compatibile con la qualifica superiore.

Orbene, sulla base delle suddette considerazioni e volgendo lo sguardo al caso qui trattato, l’istruttoria compiuta nel corso del giudizio ha fornito prova circa la sussistenza delle condizioni per il riconoscimento delle mansioni superiori.

Indi l’accoglimento del ricorso e la condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto di diritto nei confronti del proprio dipendente.

 

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