Con una recente sentenza (20 agosto 2015, n. 17024) la Cassazione civile ha dichiarato la nullità, stante la loro abusività ai sensi della normativa di protezione dei consumatori, di un numero elevato di clausole contrattuali poste all’interno di un contratto di assicurazione sulla vita a favore di terzo (più esattamente, di una serie di condizioni richieste ai fini dell’ottenimento della prestazione da parte dell’assicuratore, tutte racchiuse in un’unica clausola) ritenendole, in buona sostanza, tali da formare un “cocktail giugulatorio ed opprimente per il beneficiario, e per di più senza alcun reale vantaggio per l’assicuratore, che non sia quello di frapporre formalistici ostacoli al pagamento dell’indennizzo”.

Era da tempo che la giurisprudenza non interveniva in maniera così massiccia nei confronti di clausole di contratti assicurativi, probabilmente da quando, prima il Tribunale di Roma (con sentenza del 28 ottobre 2000) e poi la Corte di Appello di Roma (con sentenza del 7 maggio 1992), con sostanziale conferma della sentenza di tribunale, avevano dichiarato la vessatorietà di una serie di clausole contenute nei contratti di assicurazione contro i danni presenti nella maggior parte delle polizze, in quanto rispondenti a condizioni generali di contratto predisposte dall’ANIA (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici).

La recente pronuncia della Cassazione che qui si commenta sinteticamente trae spunto dalla vicenda di seguito descritta. Un soggetto aveva stipulato con un’impresa assicuratrice una polizza sulla propria vita per il caso morte, con previsione di pagamento della somma assicurata (appunto, a seguito del verificarsi dell’evento morte del contraente) a beneficio di soggetto da lui designato (come previsto dall’art. 1920 c.c., che regola il contratto di assicurazione sulla vita a favore di terzo). Trascorse circa due settimane dalla conclusione del contratto, il contraente (tecnicamente qualificato nella sentenza come “portatore di rischio”, termine con il quale nel diritto assicurativo si designa il soggetto rispetto al quale, nei contratti vita, deve verificarsi l’evento – morte o sopravvivenza ad una certa data – al quale consegue l’obbligo per l’assicuratore di pagare al terzo beneficiario) decede a causa di un ictus.

Il terzo beneficiario provvede quindi a richiedere all’assicuratore il pagamento dell’indennizzo in suo favore, ma se lo vede rifiutare per due ordini di motivi: 1) in quanto il contraente, al momento della stipula, avrebbe a suo dire mentito sul proprio stato di salute, così viziando il consenso dell’assicuratore alla formazione del contratto, con la conseguenza che il pagamento non sarebbe stato dovuto ai sensi dell’art. 1892 c.c. (il quale – come noto – prevede che l’assicuratore possa richiedere l’annullamento del contratto in caso di dichiarazioni inesatte o reticenti rese dal contraente con dolo o colpa grave o comunque, in ogni caso, ove richiesto di pagare, potrebbe eccepire il suo legittimo rifiuto proprio in considerazione della condotta del contraente); 2) in quanto il beneficiario non aveva accompagnato la richiesta di pagamento con i documenti indicati nel contratto.

Il primo profilo, relativo all’eventuale legittimo rifiuto dell’assicuratore di effettuare il pagamento, opponendo la condotta dolosa o gravemente colposa del contraente in sede di informativa precontrattuale sul proprio stato di salute, esula dall’oggetto delle presenti considerazioni e, sul punto, ci si limita a dire che la Cassazione ha ritenuto che la questione dovrà essere risolta dalla corte di appello in sede di rinvio, precisando che l’assicuratore sia legittimato ad opporre il rifiuto del pagamento al terzo beneficiario ai sensi dell’art. 1892 c.c. Di grande interesse, come accennato, è invece la parte della sentenza riguardante l’accertamento della eventuale abusività (e conseguente nullità) delle clausole in base alle quali l’assicuratore riteneva di  poter legittimamente condizionare l’effettuazione della propria prestazione ad una serie di attività da parte del terzo beneficiario.

In particolare, l’art. 16 delle condizioni generali del contratto di assicurazione sulla vita prevedeva che il beneficiario, per poter ottenere il pagamento dell’indennizzo, dovesse svolgere tutti i seguenti adempimenti (ben sette!): 1) sottoscrivere una domanda su apposito modulo predisposto dall’assicuratore, e per di più farlo “presso l’agenzia di competenza”; 2) produrre il certificato di morte del portatore di rischio; 3) produrre una relazione medica sulle cause della morte, scritta da un medico su un modulo predisposto dall’assicuratore; 4) produrre una dichiarazione del medico autore della relazione di cui sopra, nella quale questi attesti di avere “personalmente curato le risposte”; 5) produrre, a semplice richiesta dell’assicuratore, le cartelle cliniche relative ai ricoveri subiti dal portatore di rischio; 6) produrre un atto notorio “riguardante lo stato successorio” della persona deceduta; 7) produrre l’originale della polizza.

Ebbene, ad avviso della Cassazione, tale clausola è manifestamente vessatoria ai sensi dell’art. 33, lettera q) del Codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005), che prevede la vessatorietà – fino a prova contraria – delle clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di “limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l’adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità”. Questa scelta interpretativa della Corte di cassazione, anche in relazione alla riconduzione delle clausole presenti nell’art. 16 del contratto alla clausola vessatoria “tipica” prevista nella lettera q) dell’art. 33 Codice consumo (l’art. 33, secondo comma, Codice consumo, contiene infatti una lista di clausole che si presumono vessatorie sino a prova contraria), viene poi motivata punto per punto, con riferimento a ciascuno degli adempimenti richiesti al beneficiario, sopra riportati.

Tale motivazione puntuale merita di essere riportata, seguendo la stessa numerazione già sopra indicata.

La previsione secondo la quale il beneficiario deve effettuare la domanda di pagamento su un modulo predisposto dall’assicuratore si pone in contratto con il principio di libertà delle forme, che permea di sé l’intera materia delle obbligazioni contrattuali.
La previsione per cui il beneficiario deve sottoscrivere la richiesta di pagamento “presso l’Agenzia di competenza” viola addirittura la libertà personale e di movimento del beneficiario, imponendogli di fatto una servitù personale senza nessun beneficio o vantaggio per l’assicuratore (diversa è invece la clausola, che la giurisprudenza in passato ha ritenuto non vessatoria, la quale prevede l’onere dell’assicurato di comunicare con l’assicuratore utilizzando la forma scritta, ed indica specifici luoghi di invio delle comunicazioni).
La previsione per cui il beneficiario deve produrre una relazione medica sulla morte del portatore di rischio non solo pone un non irrilevante onere economico a carico del beneficiario, ma per di più pone a suo carico l’onere di documentare le cause del sinistro, onere che per legge non ha. Come precisa infatti la sentenza, nell’assicurazione sulla vita il beneficiario ha il solo onere di provare la verificazione del rischio, vale a dire la morte della persona sulla cui vita è stata stipulata l’assicurazione (appunto il cosiddetto “portatore del rischio”), mentre la circostanza che la morte possa essere avvenuta per cause che escludono l’indennizzabilità secondo le previsioni contrattuali, in quanto “fatto estintivo” della pretesa dell’attore, deve essere provato dall’assicuratore che lo eccepisce e non dal beneficiario. Questa valutazione da parte è abbastanza condivisibile, ma rispetto a questo adempimento richiesto al beneficiario, la vessatorietà della clausola sembra attenere piuttosto all’attribuzione a carico del consumatore di una inversione o modificazione dell’onere della prova, ricadente nell’ambito della lettera t) dell’art. 33 Codice consumo.

Ad ogni modo, questo profilo di vessatorietà sembra quello di maggior rilevanza per quanto attiene i contratti di assicurazione in generale, in quanto consente di affermare la vessatorietà di tutte quelle clausole che impongono all’assicurato (o al beneficiario) di dimostrare che il sinistro non rientra in uno dei rischi esclusi dal contratto (o tra le cause di esclusione descritte in contratto, il che è lo stesso), come peraltro aveva già affermato il Tribunale di Roma con la citata sentenza del 2000, con riferimento alla clausola della polizza incendio che subordinava il pagamento dell’indennizzo in caso di instaurazione di giudizio, alla prova, da offrire a cura dell’assicurato, di non aver agito con dolo o colpa grave.

  • La previsione per cui il beneficiario, a semplice richiesta, deve produrre le cartelle cliniche relative ai ricoveri della persona deceduta è per un verso di “sconfinata latitudine” in quanto, non ponendo limiti temporali, facoltizza l’assicuratore, in astratto, a richiedere persino cartella cliniche relativa ricoveri subiti dal portatore del rischio molti anni prima del decesso e, per altro verso, addossa al beneficiario l’onere economico di estrazione delle relative copie, oltre a quello materiale di contrastare eventuali eccezioni che la struttura sanitaria potrebbe opporgli, invocando le norme a tutela della riservatezza.
  • La previsione per cui il beneficiario deve produrre un atto notorio riguardante lo “stato successorio” del deceduto è inutile, dato che il beneficiario acquista il diritto all’indennizzo iure proprio e non certo iure haereditario (come risulta, peraltro, sia dal testo dell’ultimo comma dell’art. 1920 c.c., secondo il quale “Per effetto della designazione il terzo quindi acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione”, che dall’interpretazione uniforme che di questo comma hanno fornito giurisprudenza e dottrina), con la conseguenza che per l’assicuratore è del tutto irrilevante sapere se il deceduto è morto lasciando testamento oppure no, e ciò anche in considerazione del fatto che, nella causa, l’assicuratore non ha mai dedotto che la designazione fosse genericamente a vantaggio degli “eredi”, per cui si rendeva necessario sapere esattamente chi essi fossero.
  • La previsione per cui il beneficiario deve produrre l’originale della polizza, infine, si rivela anch’essa inutilmente gravosa, dato che l’assicuratore è necessariamente già in possesso della polizza (tanto è vero che, ai sensi dell’art. 1888 c.c., risulta tenuto a fornirne copia all’assicurato che gliela richieda), e per evitare pagamenti erronei l’unica esigenza dell’assicuratore è quella di accertare l’identità personale del richiedente l’indennizzo, fine per il quale il possesso e la materiale consegna della polizza dal beneficiario all’assicuratore sono irrilevanti.

Così motivata la declaratoria di vessatorietà di tutte le “sottoclausole” contenute nell’art. 16 della polizza, vessatorietà da cui discende, ai sensi dell’art. 36 del Codice consumo, la nullità delle stesse (nullità che, si rammenta, in quanto “nullità di protezione” a tutela del consumatore è solo parziale, nel contratto che il contratto rimane valido rispetto al contenuto risultante dalle clausole non dichiarate nulle), la Cassazione afferma – come già riportato all’inizio di questo scritto – anche come tutte le previsioni di cui all’art. 16 di polizza, ciascuna delle quali già di per sé gravosa, messe insieme costituiscono “un cocktail giugulatorio ed opprimente per il beneficiario, e per di più senza alcun reale vantaggio per l’assicuratore, che non sia quello di frapporre formalistici ostacoli al pagamento dell’indenizzo”.

La sentenza è da accogliere con estremo favore, in quanto paralizza, con un importante intervento demolitore, una serie di clausole che, attraverso l’imposizione di oneri gravosi ed illegittime inversioni dell’onere della prova (penso alla previsione dell’onere di presentare documentazione medica attestante le cause del decesso, la quale, come già accennato, riversa illegittimamente sul beneficiario la prova della insussistenza delle cause di esclusione descritte in polizza) potevano rendere, in concreto, piuttosto difficoltoso per il beneficiario accedere alla prestazione assicurativa in suo favore, costringendolo anche ad azioni giudiziarie.

Così descritte sinteticamente le motivazioni della decisione della Corte, pare opportuno segnalare, infine, come la sentenza abbia fornito un importante chiarimento – di natura strettamente processuale – in ordine al “tempo” entro il quale, nel processo, possa essere fatta valere la nullità di una clausola contrattuale. La questione si era posta, nel caso di specie, in quanto il terzo beneficiario, che aveva agito in giudizio per ottenere il pagamento in suo favore, aveva prospettato la nullità della clausola sotto un profilo solo nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado, mentre solo nell’atto di appello aveva evidenziato  gli ulteriori profili di vessatorietà (e conseguente nullità) della clausola.

La Cassazione, sul punto, ricorda come, con riguardo alla rilevabilità d’ufficio della nullità totale o parziale del contratto, in assenza di domande od eccezioni della parti o di tardività, le Sezioni Unite (Cass.civ., SS.UU, 12 dicembre 2014, n. 26242) abbiano stabilito che il giudice ha sempre il potere di rilevare d’ufficio la nullità del contratto o di singole clausole, anche nel giudizio di appello ed in quello di cassazione. Per giunta, specifica la sentenza in commento, tale potere del giudice riguarda sia le nullità per così dire “tradizionali” (quelle di cui all’art. 1418 c.c.) sia quelle “di protezione”, vale a dire previste al fine di garantire la parità tra contraenti forti e deboli, come sono appunto quelle dettate dall’art. 33 Codice consumo. Una volta poi che il giudice abbia rilevato, anche d’ufficio, l’esistenza della nullità, è facoltà della parte domandargli, anche tardivamente, che tale nullità sia dichiarata in sentenza con effetto di giudicato (come affermato sempre dalle Sezioni unite del 12 dicembre 2014). Il cammino verso un equilibrio sostanziale, e non solo formale, tra le posizioni dell’assicurato (o del beneficiario, come in questo caso) e dell’assicuratore, è senz’altro reso più agevole da decisioni che, come questa, chiariscono l’ambito di operatività dell’elenco di clausole vessatorie di cui all’art. 33 Codice consumo.

Avv. Leonardo Bugiolacchi

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