Per la Corte di Giustizia una prestazione come l’ assistenza personale non rientra nella nozione generale di prestazione per malattia (sentenza del 25.7.18)

Una prestazione come l’ assistenza personale, consistente nella copertura dei costi generati dalle attività quotidiane di una persona con disabilità grave allo scopo di consentire a quest’ultima – benché inattiva sul piano economico – di proseguire gli studi superiori, non rientra nella nozione generale di prestazione per malattia.

Questo l’ultimo arresto della Corte di Giustizia con la sentenza 25.7.2018 (causa C-679/16) che consente di riaffermare il principio per cui ad un residente in uno stato membro, che sia affetto da disabilità grave, non può negarsi la prestazione di assistenza personale, per il fatto che la persona soggiorni in altro stato membro per motivi di studio.

Ancora una volta, confermando il proprio quasi coevo precedente del 12 luglio 2018 (causa C-89/17), la Corte risolve la questione sottopostale richiamando il principio generale della libera circolazione e soggiorno del cittadino all’interno dell’Unione Europea che potrebbe essere pregiudicato dal timore dell’interessato di perdere un diritto che lo stato di appartenenza gli assicura sul proprio territorio.

Il caso esaminato è quello di un cittadino finlandese affetto da grave disabilità e che fruisce nel proprio stato nazionale di assistenza personale negli studi, che si era visto negare il diritto di fruire di quella assistenza nei giorni della settimana in cui – temporaneamente per un periodo di tre anni – si sarebbe recato a Tallin (Estonia) proprio al fine della prosecuzione degli studi.

Essenzialmente la questione è da un lato se un’ assistenza personale concessa ad una persona gravemente disabile rientri nella qualificazione generale di prestazione per malattia o se al contrario esuli dall’ambito di applicazione del Regolamento 833/2004, dall’altro se gli artt. 20 e 21 TFUE ostino a che l’autorità competente finlandese rifiuti di concedere tale assistenza ad una persona gravemente disabile, residente in Finlandia solo perché quest’ultimo ha liberamente scelto di completare i propri studi superiori in un altro stato membro.

Più in generale la sentenza in commento consente di reinquadrare, anche nella giurisprudenza comunitaria, il nucleo duro del diritto all’istruzione per quanto riguarda specificamente le persone con disabilità, concetto già elaborato da plurimi arresti della Corte Costituzionale Italiana (da ultimo Corte Cost. 275/2016) come anche da pronunce delle Corti di diritto internazionale.

Sembra evidente come il diritto all’istruzione si riveli un mezzo estremamente potente per consentire e promuovere l’integrazione nel tessuto sociale delle persone con disabilità, trattandosi di uno dei mezzi attraverso cui si esplica la loro personalità.

Il fulcro della questione riposa sulla possibile individuazione di un contenuto minimo essenziale del diritto all’istruzione che imponga obblighi di condotta all’amministrazione competente, la cui inosservanza importi responsabilità a carico della stessa amministrazione.

Per ciò che qui interessa riveste estrema rilevanza il rapporto fra il citato nucleo duro ed il diritto comunitario, per come interpretato dalla stessa Corte di Giustizia. La non qualificazione come prestazione di malattia del beneficio in questione consente, e forse impone di riportare l’attenzione sulla definizione di disabilità che è desumibile dalla stessa giurisprudenza lussemburghese, anche sulla base delle disposizioni della CDPD.

Ma vi è certamente di più.

Se il diritto allo studio delle persone con disabilità è un ambito nel quale la giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi più volte, anche con sentenze che hanno segnato l’avanzamento della tutela come vere e proprie pietre miliari, è necessario segnalare una nuova tendenza:

– le situazioni soggettive portate recentemente all’attenzione della magistratura vengono sempre più spesso risolte ricorrendo al diritto antidiscriminatorio mentre in un passato, anche non troppo remoto, si riteneva che queste controversie ricadessero nella giurisdizione amministrativa.

Oggi proprio grazie alla lettura orientata in senso costituzionale e dei diritti umani  sono numerosi i casi in cui i giudici ordinari, riconosciuta la propria competenza, ordinano di rimuovere gli ostacoli al godimento del diritto allo studio degli alunni con disabilità.

Ciò passa anche, a parere di chi scrive dal riconoscimento che la disabilità è un concetto in evoluzione ovvero, nella maggioranza dei casi, il  risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri.

Considerato che lo scopo della CRPD è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità, per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri.

Per discriminazione fondata sulla disabilità si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio su base di uguaglianza con gli altri di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole.

Occorre ricordare a tal proposito che l’Unione ha approvato la Convenzione ONU sulla disabilità con decisione 2010/48.

Di conseguenza le disposizioni di tale convenzione formano parte integrante, a partire dalla sua data di entrata in vigore, dell’ordinamento giuridico dell’Unione.

Per tali ragioni in seguito alla ratifica la Corte ha dichiarato che la nozione di handicap ai sensi della direttiva 2000/78 deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, di conseguenza l’espressione disabili utilizzata nell’art. 5 della direttiva deve essere interpretata nel senso che comprende tutte le persone affetta da un handicap corrispondente alla definizione enunciata.

Peraltro la convenzione ONU non definisce la nozione di carattere duraturo di una menomazione, fisica mentale, intellettuale o sensoriale e neppure lo fa la direttiva 2000/78.

Tra gli indizi che consentono di considerare duratura una limitazione, figura in particolare la circostanza che, all’epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell’interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona.

Nel contesto dell’esame di tale carattere duraturo il giudice del rinvio deve basarsi sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona e dati medici e scientifici attuali.

Per tornare al caso che ci occupa la Corte non definisce discriminatorio il comportamento dell’amministrazione comunale finlandese ma è ragionevole pensare che il Collegio abbia semplicemente scelto una base giuridica differente per arrivare comunque a considerare non ragionevolmente giustificata la negazione del beneficio.

Questa diversa base giuridica altro non è che uno degli elementi fondanti della costruzione europea fin dai suoi albori: la libertà di circolazione e stabilimento dei cittadini nel territorio dell’Unione.

Infatti tra le situazioni che rientrano nell’ambito di applicazione del diritto comunitario, per materia, figurano quelle riguardanti l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dai Trattati ed in particolare la libertà di circolare e di soggiornare sul territorio degli stati membri come garantita dall’art. 21 TFUE come interpretato da giurisprudenza costante da cui risulta che una normativa che svantaggi taluni cittadini per il solo fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione e stabilimento, rappresenti una violazione del già citato art. 21 (si vedano i punti 60 e 61 della sentenza in commento) o che gli stessi vengano inibiti dall’esercitare il medesimo diritto per paura di perdere le prestazioni di sostegno di cui godono (assistenza personale, per esempio).

Ne deriva che la decisione della Repubblica di Finlandia non è ragionevolmente giustificata e che il suo mantenimento comporterebbe discriminazione diretta o indiretta per causa di disabilità.

Avv. Silvia  Assennato

(Foro di Roma)

 

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