La Corte di Cassazione è intervenuta, con una recente sentenza, a fare il punto in materia di coltivazione e commercio di canapa attualmente consentiti secondo la normativa vigente

Il Tribunale di La Spezia aveva rigettato l’istanza di riesame proposta dell’interesse della persona indagata contro il decreto di convalida del sequestro probatorio emesso dal PM e, avente ad oggetto ben 94 confezioni recanti l’effige della canapa, ipotizzando il reato di cui all’art. 73, comma 4 del DPR 309/1990 in materia di produzione, traffico e detenzione illecita di sostante stupefacenti.

Ma a detta del ricorrente mancavano gli estremi del reato contestato; dal momento che la sua attività di commercializzazione rientrava tra quelle previste dalla L. n. 246/2016 recante Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa.

E peraltro, la liceità della commercializzazione della canapa industriale sarebbe stata confermata anche dalla circolare del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali del 22 maggio 2018, che consente la vendita e il consumo finale di prodotti derivati dalla canapa.

Aveva perciò errato il Tribunale nel ritenere che i prodotti sequestrati non rientrassero in nessuna delle categorie indicate nella normativa citata?

Il punto della Cassazione

Principio cardine è la generale previsione d’illiceità penale della coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti: senza la prescritta autorizzazione, infatti, la “coltivazione” è una delle condotte oggetto d’incriminazione dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, senza che assuma rilevanza, per escludere la sussistenza del reato, la circostanza che essa sia finalizzata al consumo personale.

Tuttavia le Sezioni Unite hanno precisato che per l’integrazione del fatto di reato occorre che il giudice verifichi in concreto l’offensività della condotta di coltivazione, ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (Sez. Un. n. 280605/2008).

La coltivazione consentita

In via d’eccezione, la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è consentita solo previo rilascio di autorizzazione, che può essere concessa, ai sensi degli artt. 17 e 26 del d.P.R. n. 309/1990 dal Ministero della Salute, a enti o imprese interessati alla coltivazione per finalità commerciali, ovvero a istituti universitari o laboratori pubblici aventi fini istituzionali di ricerca, per scopi scientifici, sperimentali e didattici.

Viene inoltre ricordato che la detenzione di sostanze stupefacenti per consumo personale non è lecita, essendo punita come violazione amministrativa ai sensi dell’art. 75 d.P.R. n. 309/90.

La legge n. 242/2016

In questa cornice si inserisce la legge 2 dicembre n. 242/2016 introdotta con la finalità, espressamente dichiarata dall’art. 1, comma 1, di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa “quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione”.

La finalità, dunque, è solo quella di incentivare e sostenere la coltivazione della canapa in vista dei suoi molteplici utilizzi in ambito agro-industriale, senza quindi interferire con il mercato illecito finalizzato al consumo personale di quella sostanza.

Peraltro, l’art. 1 comma 2 specifica quali sono le coltivazioni consentite.

Si tratta di quelle varietà iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002; che non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, d.P.R. 309/1990.

Ad ogni modo, deve trattarsi di specie di piante caratterizzate dal basso dosaggio del principio attivo, che comunque non supera lo 0,2%.

Interessante è poi il comma 2, il quale indica tra i prodotti ricavabili dalla (lecita) coltivazione della canapa:
a) alimenti e  cosmetici  prodotti  esclusivamente  nel  rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato  ai  lavori  di  bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; f) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché’ di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo.

Riepilogando

La coltivazione della canapa è lecita se sono congiuntamente rispettati tre requisiti:
1)      deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per basso dosaggio di THC;
2)      la percentuale di THC non deve essere superiore allo 0,2%;
3)      la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art. 2 comma 2, l. 242/2016.

Peraltro, la previsione espressa di esonero di responsabilità nel caso di superamento del limite dello 0,2% di THC presente nelle piante, riguarda solamente l’agricoltore, mentre nei confronti del commerciante di prodotti a base di canapa trovano applicazione i principi generali.

Lo stesso vale per i limiti all’esercizio dei poteri di polizia, in ordine alla possibilità di procedere al sequestro dei prodotti derivanti dalla canapa.

Ed infatti, il provvedimento ablativo reale è ammissibile solo se sussiste il fumus del delitto di cui all’art. 73, comma 4 d.P.R. n. 309/1990 ossia quando sia accertata una percentuale di THC tale da produrre un effetto stupefacente o psicotropo.

Ora, nel caso in esame – osservano i giudici della Cassazione – era evidente che si trattasse di prodotti non rientranti in nessuna delle fattispecie specifiche indicate nell’art. 2, comma 2 della l. 242/2016, dal momento che erano stati qualificati come “prodotti tecnici da collezione, ornamenti o profumi per ambiente”.

Per tutte queste ragioni il ricorso è stato respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Dott.ssa Sabrina Caporale

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