Aveva destato scalpore il caso dei certificati medici facili che aveva portato la Corte dei Conti Umbria a condannare un medico in via sussidiaria al risarcimento del danno patrimoniale all’Erario. Il sanitario ora ha fatto ricorso.

Il medico che era stato condannato dalla Corte dei Conti Umbria nella vicenda dei certificati medici facili ha deciso di presentare ricorso alla Procura generale.

In base a una serie di prove (certificati di altri medici e condotta del paziente) non considerate nel primo giudizio, il sanitario condannato in via sussidiaria al risarcimento del danno patrimoniale all’Erario, pari alla metà dello stipendio indebitamente percepito dal lavoratore nel periodo coperto dalle sue certificazioni ritenute false, ha presentato ricorso per la revoca della sua condanna.

Il medico di famiglia, infatti, aveva ritenuto reale la patologia certificata.

Oltre alla sua valutazione, va aggiunto il verbale della Commissione medica per l’accertamento della invalidità del 2015, insieme alle dichiarazioni di un altro medico.

Queste costituiscono il verbale di sommarie informazioni sempre del 2015.

Inoltre, ci sarebbe il certificato di questo stesso medico del 2015 e del 2016 e i certificati delle visite medico fiscali durante il periodo contestato.

Tutti elementi, secondo il medico, che concorrono a confermare una situazione patologica depressiva anche di tipo maggiore del paziente. E che quindi sono una ulteriore conferma della diagnosi della dottoressa di famiglia che giustifica conseguentemente la assenza dal lavoro del lavoratore.

“Nel certificato della visita medico fiscale del 2016 – si legge nel ricorso – viene anche acquisita la prescrizione specialistica dello stesso anno. Il certificato del 2017 attesta lo stato patologico addirittura dal gennaio 2013”.

Inoltre, afferma il ricorso, “a ciò si aggiungano per Il periodo successivo: la relazione del servizi sociali del 27/07/2017 per la L.104/92 con visita fissata per il mese di settembre e l’esito di tale visita medico legale che conferma la patologia diagnosticata dal medico di base riconoscendo il paziente invalido al 67% con riduzione permanente della capacità lavorativa dal 34% al 73%; il provvedimento di revoca della patente di guida del 2017 sulla base delle patologie diagnosticate”.

E non è tutto.

Nel ricorso è scritto che nessuno del medici intervenuti ha mai messo in discussione la diagnosi del medico di base.

Essa era “a sua volta basata anche sulle risultanze mediche degli specialisti che hanno preceduto il suo operato confermato anche successivamente”.

Su tali presupposti il medico di famiglia condannato per la vicenda dei certificati medici facili ha deciso di fare ricorso per la revoca della sua condanna.

Le motivazioni

Il medico sostiene di aver attestato il periodo di malattia in continuazione e non in maniera continuativa. E questo proprio perché, a ogni scadenza, ha ritenuto doveroso rivalutare la situazione del proprio paziente. In questo modo avrebbe dimostrato di avere “la giusta attenzione nella cura del predetto”.

E non è tutto.

La dottoressa aveva anche cercato di individuare le cause dei vari disturbi manifestati dal paziente.

Tra i sintomi manifestati vi era una forte confusione mentale e il dormire in luoghi del tutto inappropriati, oltre che incompatibili con il lavoro. Inoltre, il paziente lamentava una accentuata aggressività a casa.

Sempre secondo il ricorso, tali sintomi testimoniavano uno stato patologico gravemente depressivo.

Condizione che rendeva il paziente assolutamente inadeguato rispetto alle proprie mansioni lavorative.

Oltre a questo, l’esame dei sintomi ha permesso di diagnosticare quella che viene definita Osas cioè la sindrome da apnee ostruttive del sonno. Una patologia che può portare alla depressione.

Inoltre, il ricorso sottolinea come il datore di lavoro del paziente abbia omesso di richiedere il controllo medico-legale sulla idoneità del lavoratore al momento del suo rientro.

E questo alla luce semplicemente del lungo periodo di malattia che lo aveva allontanato dal posto di lavoro.

Tuttavia, la Corte dei Conti che ha condannato il medico non ha considerato tutti questi elementi, ritenendo il paziente mendace.

“Il Giudice a quo – si legge nel ricorso – nella parte della sentenza oggetto di gravame, ha riconosciuto che il paziente è stato così bravo da far cadere in errore la dottoressa per poi, subito dopo, addebitare alla stessa un elevato grado di responsabilità, quello per colpa grave”.

E, prosegue il ricorso, “è evidente che la riconosciuta induzione in errore avrebbe dovuto, invece, far pervenire logicamente alla radicale esclusione di qualsivoglia volontà colpevole in capo alla dottoressa”.

Nel ricorso si afferma poi che essere corresponsabili di un disegno criminoso presuppone l’esserne a conoscenza.

Circostanza che non si è verificata nel caso di specie.

Quindi, la diagnosi della dottoressa si è correttamente basata sull’anamnesi del paziente. Una diagnosi basata sugli esiti delle numerose verifiche mediche cui ha fatto sottoporre lo stesso.

Invece, “mentre il giudice a quo ha evidentemente errato nel non considerare i certificati dei medici fiscali pervenendo a un giudizio di inidoneità al lavoro del paziente in forza di un percorso sbagliato, arbitrario e, tenendo conto della domanda della Procura Regionale, in palese violazione dell’art. 112 c.p.c”, la richiesta del ricorso è che il Presidente della Corte assegni il giudizio e il Presidente della Sezione al quale il giudizio sarà assegnato fissi l’udienza per riaprire e ridiscutere il caso”.

 

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