Illegittima la pretesa del datore di richiedere per l’assunzione di esibire il certificato carichi pendenti se il CCNL non lo prevede. Lo afferma la Cassazione.

Nella sentenza n. 19012/2018, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, fa chiarezza sul certificato carichi pendenti. Può il datore di lavoro esigerlo? Si tratta di una pretesa legittima?

Per gli Ermellini no: è da ritenersi illegittima la pretesa del datore di lavoro, in sede di assunzione, di esibire il certificato carichi pendenti se il CCNL prevede, ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, unicamente la produzione del certificato penale.

La vicenda

Nel caso di specie, la Corte si è pronunciata sul caso di una lavoratrice che aveva chiesto la condanna di Poste Italiane ad immetterla in servizio.

La donna, già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato da Poste Italiane, non era stata assunta in servizio. Era infatti risultato un carico pendente dalla certificazione della Procura competente.

I giudici di merito hanno accolto il ricorso. Infatti, hanno ritenuto illegittimo il rifiuto di procedere all’assunzione in assenza del certificato carichi pendenti.

I giudici d’appello hanno sostenuto che la disposizione di cui all’art. 19 del CCNL prevedesse tra i documenti da presentare per l’assunzione solo “il certificato penale di data non anteriore a tre mesi” non anche quello dei carichi pendenti.

Non è tutto.

L’estensione della richiesta della società non avrebbe potuto essere giustificata da alcun interesse dell’azienda a conoscere la storia personale della persona che si accingeva ad assumere. E questo, stante, peraltro, la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 della Costituzione.

In Cassazione, Poste Italiane ha ritenuto che l’espressione “certificato penale” dovesse essere intesa in senso ampio. Vale a dire comprensiva anche del certificato carichi pendenti.

Questo poiché la ratio della norma è quella di garantire il datore di lavoro nella fase dell’assunzione.

Nel respingere il ricorso, gli Ermellini hanno ritenuto che i rilievi della ricorrente non fossero tali da scalfire l’interpretazione dell’art. 19 del c.c.n.l. come offerta dalla Corte territoriale.

Inoltre appariva corretta la rilevanza attribuita al dato letterale secondo il quale tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione ci fosse il solo “certificato penale di data non anteriore a tre mesi”.

La disposizione predetta è pertanto chiara nella sua formulazione. Non è dunque possibile attribuire all’espressione “certificato penale” un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni.

Si tratta quindi di una disposizione che, condizionando l’assunzione alla presenza di determinati requisiti documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva.

Ciò in quanto si risolverebbe nell’introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere.

Come sottolinea la Cassazione, la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato.

Questo limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso.

E questo, conclude la Cassazione, soprattutto in considerazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza.

 

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