Nei casi di omissioni diagnostiche e terapeutiche e dei ritardi causa dell’evento. Commento alla sentenza n. 12679/2016 della CORTE di Cassazione, Sez. IV Penale 

Ancora una volta il tema è quello della responsabilità medica, che in questo caso offre lo spunto per parlare di una tematica ulteriore: il ruolo, la posizione del primario e il suo rapporto con l’aiuto primario.

L’aiuto (primario) essendo titolare di un’autonoma posizione di garanzia, nei confronti dei pazienti, deve attivarsi secondo le regole dell’arte medica per rendere operativo ed efficace l’intervento del predetto primario, se del caso a quest’ultimo sostituendosi”.

A dirlo sono i giudici della IV Sezione Penale della Cassazione che si sono pronunciati in relazione all’imputazione per il grave delitto di omicidio colposo ascritto ad un aiuto primario, ritenuto responsabile della morte di una paziente, a causa della sua condotta gravemente omissiva.

Il profilo di colpa contestato attiene, in verità, alla condotta successiva all’intervento di colecistecotomia per via laparoscopica, cui veniva sottoposta la vittima. Questi, infatti, sebbene l’evidente peggioramento delle condizioni in cui versava la paziente, avrebbe omesso di disporre accertamenti diagnostici anche semplici che avrebbero, a loro volta, consentito di accertare la peritonite generalizzata in atto e dunque, impedito il decesso della donna.

Già i giudici di merito, nell’esaminare il fondamento dell’azione civile proposta dai congiunti della vittima, si erano pronunciati in favore della responsabilità del sanitario, accogliendo l’ipotesi accusatoria. Tre, i profili analizzati: se, data la situazione clinica della paziente, il professionista si fosse trovato ad affrontare particolari difficoltà tecniche sia diagnosticate che terapeutiche; se il suo ruolo di aiuto primario di turno in reparto gli consentisse di intervenire; ed ancora se le condotte omesse, una volta attuate, avrebbero portato ad effetto salvifico.

Alla stessa conclusione giungevano i giudici di legittimità.

«Il consulente del P.M. aveva concluso in modo netto per la sussistenza della colpa in relazione alla gestione della fase post-operatoria, rilevando che la complicanza insorta (peritonite) era stata affrontata con ritardo, nonostante la comparsa di segni clinici estremamente gravi, e precisamente la presenza di abbondante versamento libero in addome, evidenziato dall’esame ecografico eseguito a distanza di due giorni dall’intervento, e il quadro di shock ingravescente che aveva raggiunto il suo punto critico dopo nove giorni dall’intervento medesimo, tanto da rendere irreversibile il quadro patologico e condurre all’exitus della paziente, dopo un estremo tentativo di scongiurare l’evento con l’intervento chirurgico di urgenza eseguito nell’ospedale di (OMISSIS). Il giudizio del consulente del P.M. aveva poi trovato puntuale conferma nelle risultanze della perizia dibattimentale, la quale aveva posto in evidenza che [sin da subito] le condizioni della paziente avevano subito un drastico peggioramento e si presentavano tali da indurre, oltre che ad un preliminare esame chimico-fisico e batteriologico del liquido ascitico, esame mai richiesto, quanto meno all’effettuazione di un reintervento esplorativo (quello che poi venne effettuato, ma in ritardo), intervento che, se eseguito in tempo, avrebbe con certezza consentito di diagnosticare la peritonite in atto e, con criterio di probabilità prossimo alla certezza tecnica (quantificata la percentuale in dibattimento nella misura del 90%), avrebbe scongiurato la morte. I periti avevano quindi ritenuto censurabile la condotta dei sanitari responsabili della paziente nell’arco temporale contestato, per non aver posto diagnosi di peritonite, ovvero nel solo forte sospetto di questa, per non aver proceduto tempestivamente ad una revisione chirurgica (relaparotomia), prima che iniziasse l’insufficienza acuta multiorgano».

È, pertanto, alla luce di simili affermazioni tecnico-scientifiche che anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione, ritengono di poter affermare la responsabilità per colpa, dell’imputato, il nesso di causalità tra le omissioni e l’evento, posto che quest’ultimo non si sarebbe verificato laddove fosse stata eseguita la condotta salvifica.

Ma non è tutto. Come anticipato, la pronuncia in commento rileva sotto un diverso profilo: i giudici superiori, nell’affrontare il tema della responsabilità dei medici ospedalieri, chiariscono il ruolo e la posizione del primario ed il suo rapporto con l’aiuto primario, configurando in capo a quest’ultimo una autonoma posizione di garanzia.

«Quantunque competa al primario una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti, dovuta alla sua posizione apicale, con il connesso potere-dovere di impartire istruzioni e direttive ed esercitare ogni verifica inerente alla loro attuazione, anche quando non è presente in reparto, deve comunque escludersi che tra l’aiuto e il primario esista un rapporto di subordinazione assoluto e vincolante, non essendo la posizione apicale dell’aiuto quella di mero esecutore di ordini».

«Già questa Corte – continuano – esaminando il ruolo del primario ed il rapporto con l’aiuto primario – ha affermato che in tema di responsabilità dei medici ospedalieri, ai sensi del D.P.R. 27 marzo 1968, n. 128, art. 7, il primario può, in relazione ai periodi di legittima assenza dal servizio, imporre all’aiuto l’obbligo di informarlo ed ha diritto di intervenire direttamente; tuttavia quando, avvertito, abbia dichiarato di voler assumere su di sé la decisione del caso, l’aiuto non può restare inerte in attesa del suo arrivo ma, essendo titolare di un’autonoma posizione di garanzia, nei confronti dei pazienti, deve attivarsi secondo le regole dell’arte medica per rendere operativo ed efficace l’intervento del predetto primario, se del caso a quest’ultimo sostituendosi (così Sez.4, 7.6.2000 n. 7483 in cui si è ritenuto in particolare che l’aiuto deve procedere all’intervento a suo giudizio improcrastinabile). Se allora il primario può imporre un obbligo di informativa anche in assenza ed il potere di immediato intervento nel tempo di riposo o comunque di legittima assenza, dalla struttura logica della richiamata norma deve dedursi che nell’assenza o impedimento del primario, ogni decisione debba essere adottata dall’aiuto, anche quando il primario, doverosamente avvertito, dichiari di voler assumere su di sé la decisione del caso. In tale ipotesi, invero, all’aiuto spetta procedere secondo quanto occorra e non restare inerte nell’attesa dell’arrivo del primario, posto che su di lui cade l’obbligo di attivarsi secondo le regole dell’arte medica, ed egli è costituito nella posizione di garanzia verso il paziente, fino al momento in cui colui che è investito del primariato prenda in sua mano la situazione. Con l’ulteriore logica conseguenza che in assenza del primario l’aiuto deve, se a suo giudizio necessario, esercitare il ruolo di alter ego del primario che gli è proprio e che altrimenti resterebbe svuotato di ogni contenuto.

Ebbene, «nel caso che ci occupa, – aggiungono i giudici di piazza Cavour – poiché l’imputato aveva seguito l’evoluzione postoperatoria della paziente essendo in servizio in reparto nei giorni in cui erano state accertate le omissioni diagnostiche e terapeutiche di cui si è detto, egli avrebbe dovuto intervenire e svolgere il doveroso ruolo di cura della paziente, anche se era stata trattata chirurgicamente dal primario:°(…), con la conseguenza che deve rispondere, al pari del primario, delle omissioni diagnostiche e terapeutiche e dei ritardi che hanno condotto al decesso».

Del resto…

all’aiuto non si richiede un pedissequo e acritico atteggiamento di sudditanza rispetto alle scelte del medico in posizione apicale, con la conseguenza che deve fare tutto quanto in suo potere per impedire l’evento, segnalando eventuali omissioni o scelte non condivise, per le quali, mancando un dissenso, assume pari responsabilità (in tal senso Sez.4, 18.1.2000 n.556).

Avv. Sabrina Caporale

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