Anche la Corte di Cassazione ha confermato la misura cautelare disposta a carico del Presidente della Commissione medica di verifica presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che nell’esercizio delle proprie funzioni, istruiva pratiche orientate al fine di far ottenere, dietro compenso, una dichiarazione di inabilità al lavoro per ragioni di salute, in favore di persone (…), che non erano in possesso dei requisiti necessari per fruire dei relativi benefici pensionistici.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 3 – 18 febbraio 2016, n. 6677.

Presidente della Commissione Medica presso il MEF (Ministero dell’Economia e delle Finanze), indagato per i reati di corruzione continuata di cui all’art. 319 cod. pen., capi 1) e 2), per aver ricevuto – nell’esercizio delle proprie funzioni e in ragione del ruolo rivestito – somme di denaro da un medico legale, al fine di far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti.

Già sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere emessa dal G.i.p. e successivamente, confermata dal Tribunale del riesame, lo stesso proponeva, avverso la su indicata ordinanza, ricorso per cassazione, denunziando l’insussistenza del fumus e del periculum per l’applicazione della predetta misura cautelare.

Tuttavia, ad avviso della Suprema Corte, il Tribunale del Riesame aveva correttamente analizzato il compendio degli elementi indiziari emersi a carico del ricorrente, dando conto, “sulla base di passaggi argomentativi stringenti e logicamente illustrati, delle ragioni che giustificano il relativo epilogo decisorio”.

In particolare, i fatti denunziati vedevano coinvolto l’indagato, nella sua veste di Presidente della Commissione medica di verifica presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, istruire pratiche orientate al fine di far ottenere, dietro compenso, una dichiarazione di inabilità al lavoro per ragioni di salute, in favore di persone (…), che non erano in possesso dei requisiti necessari per fruire dei relativi benefici pensionistici.

Secondo il parere dei giudici ermellini, il Tribunale del riesame avrebbe correttamente applicato i principi al riguardo affermati dalla stessa giurisprudenza di legittimità (v., in motivazione, Sez. 6, n. 23354 del 04/02/2014, Conte, Rv. 260533), secondo cui, «ai fini della sussistenza del reato ascritto, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge, poiché la fattispecie incriminatrice de qua è chiamata a sanzionare anche l’uso distorto della discrezionalità amministrativa, cioè il procedimento condizionato non già da un percorso di attenta ed imparziale comparazione tra gli interessi in gioco, ma dalla percezione di un indebito compenso affinché venga raggiunto un esito determinato (esito che può anche essere compatibile con il sistema delle norme regolatrici, e può finanche coincidere, ex post, con quello che sarebbe stato raggiunto in assenza del pagamento corruttivo)».

Nell’affermare tale principio, inoltre, la stessa Corte di Cassazione ha precisato che il versamento di una somma consistente è un elemento [di per sé] fortemente sintomatico della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento amministrativo, soggiungendo che “solo quando l’atto risulti sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato a tutela del pubblico interesse, con il medesimo contenuto e con le medesime modalità, il pagamento corruttivo potrebbe considerarsi ininfluente sulla sua conformità ai doveri dell’ufficio, e dunque riconducibile alla fattispecie della c.d. corruzione impropria (Sez. 6, sent. n. 36083 del 09/07/2009, Rv. 244258)”.

Non appare dirimente, invece, l’obiezione mossa dalla difesa, secondo cui la corruzione c.d. propria sussisterebbe solo quando sia configurabile un comportamento doveroso alternativo, sul presupposto che, «trattandosi di persone affette da gravi patologie, il beneficio richiesto sarebbe stato ad esse comunque riconosciuto, a prescindere dalla erogazione di denaro, poiché ciò che si richiedeva all’indagato nell’adempimento delle sue funzioni era l’espressione di una valutazione autonoma, frutto di un meditato apprezzamento dell’esistenza e della fondatezza del tipo di patologie rilevate dagli specialisti, nell’ambito di una decisione collegiale fondata sul rispetto di regole tecniche e di criteri di buona amministrazione, laddove la corresponsione di un corrispettivo destinato a far ottenere i benefici richiesti da determinate persone preclude in radice la possibilità di un corretto esercizio dei poteri che ne regolano l’attività, impedendo, come puntualmente evidenziato dal Tribunale, “ogni considerazione, conforme a criteri di correttezza e di discrezionalità amministrativa o tecnica, nell’esame di quella richiesta”».

Ma non è tutto. «In tema di corruzione propria, – aggiungono gli ermellini – costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 6, n. 30762 del 14/05/2009, Ottochian e altri, Rv. 244530)».

Viste tali premesse, la Corte di legittimità attesta la sussistenza delle esigenze cautelari e, segnatamente, i concreti pericoli di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato, sia a motivo dell’influenza esercitata dall’indagato sui dipendenti dell’ufficio, sia per la necessità di acquisire informazioni da altri addetti che non devono essere condizionati dalla presenza dell’indagato.

Avv. Sabrina Caporale

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