La sentenza del tribunale di S. Maria Capua Vetere sostiene che addebitare “costi di cessazione del servizio” forfettizzati è in contrasto con la legge

Con la sentenza depositata lo scorso 10 marzo, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere si è pronunciato in merito ai costi di disattivazione del contratto telefonico e alla loro legittimità.

Per i giudici, infatti, il recesso dal contratto telefonico non deve comportare costi per gli utenti.

Nello specifico, non possono essere addebitati “costi di cessazione del servizio” a forfait poiché ciò significherebbe, di fatto, prevedere un costo per il recesso. Cosa che andrebbe in netto contrasto con la legge.

La vicenda

Nel caso di specie, la Wind ha fatto appello avverso la sentenza del giudice di Pace di Caserta. Questi aveva accolto la domanda di un utente volta ad ottenere l’emissione di una nota di credito dell’importo di € 65,00, addebitato a fronte della disattivazione della propria utenza telefonica.

Ebbene, per la compagnia telefonica la sentenza era erronea.

Ciò in quanto l’importo di 65 euro preteso dall’utente non costituiva un costo del recesso dal contratto, bensì faceva parte dei costi di disattivazione sostenuti dalla compagnia telefonica. Essi erano da corrispondere a Telecom, unico proprietario delle reti telefoniche.

Tale costo, inoltre, asseriva la Wind, era stato anche approvato da AGCOM e pubblicizzato nella fatturazione successiva alla relativa previsione, con possibilità per l’utente di recedere.

In relazione alla mancata prova dei costi sostenuti, la Wind sosteneva che, in considerazione dell’ingente numero di utenti, non era possibile documentare materialmente la parte di spesa impiegata per la migrazione di ogni utenza.

Ciò in quanto non erano frazionabili per singolo utente i costi sostenuti anche in termini di risorse umane. Da ciò discendeva la previsione di un importo forfettario avallato e riconosciuto dalla stessa Autorità Garante.

Tuttavia, per il tribunale l’appello va rigettato.

Come osservato dal giudice di prime cure, all’utente non possono essere addebitati ex legge n. 40/2007 costi di disattivazione del contratto telefonico.

Tale disciplina, all’art. 1, comma 3, prevede che “I contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti televisive e di comunicazione elettronica, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto o di trasferire le utenze presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati e senza spese non giustificati da costi dell’operatore e non possono imporre un obbligo di preavviso superiore a trenta giorni”.

Non solo.

La disposizione “introdotta nell’ambito di una più ampia riforma della disciplina delle tariffe dei servizi, a tutela della concorrenza e della trasparenza delle tariffe medesime e ad “assicurare ai consumatori finali un adeguato livello di conoscenza sugli effettivi prezzi del servizio – osserva il giudice – rende, quindi, illegittime le disposizioni contrattuali che, contrariamente a quanto previsto da essa, prevedano l’addebito di costi a carico dell’utente in caso di recesso dal contratto”.

Inoltre, non può essere accolta la tesi della compagnia telefonica.

Essa aveva sostenuto che l’importo preteso nei confronti dell’utente non costituisse un corrispettivo del recesso, ma un vero e proprio costo che la compagnia telefonica era tenuta a sostenere per la disattivazione della linea in conseguenza del fatto che le reti di telefonia fissa sono di proprietà della Telecom. Costi che, sarebbero “determinati in misura forfettaria, non essendo possibile dimostrarli specificamente con riferimento ai singoli utenti”.

Il Tribunale ha rifiutato tale spiegazione. La disciplina specifica “che vieta l’addebito all’utente di corrispettivi per il recesso – peraltro nella evidente prospettiva di favorire il passaggio da un operatore telefonico all’altro assicurando così l’effettiva realizzazione della concorrenza tra imprese con ricadute benefiche per i consumatori – e che al contempo fa salvi eventuali ‘costi’ che devono essere sostenuti dall’operatore va necessariamente interpretata nel senso che, qualora l’operatore addebiti dei costi all’utente, debba anche fornire in concreto la prova specifica di questi ultimi” spiega il giudice.

Se si ammettessero questi costi di disattivazione forfettari, spiega il giudice, “si arriverebbe – invece – al risultato paradossale di continuare a prevedere l’applicazione di un corrispettivo standardizzato per il recesso dal contratto, semplicemente chiamandolo con un nome diverso, in netto contrasto con la lettera e con la ratio della disciplina n. 40/07”.

Per questa ragione, se la compagnia intende addebitare all’utente i costi sostenuti per il recesso, “deve dare necessariamente la prova di questi ultimi”. Cosa non avvenuta nel caso di specie.

Infine, un altro aspetto non rende legittima la previsione del costo forfettizzato.  Ovvero, “il fatto che di esso sia stato dato anche pubblicità da AGCOM che ne ha, quindi, sostanzialmente avallato l’applicazione”.

Specifica il giudice che “si tratta, infatti, di un profilo che attiene al diverso piano dei rapporti con le Autorità Garanti e che non può precludere l’indagine in sede civile sulla legittimità o meno della pretesa di richiedere un determinato importo a titolo di spesa sostenuta senza che, poi, si dia effettivamente prova di averla concretamente sopportata”.

Alla luce di quanto esposto, quindi, l’addebito è da ritenersi illegittimo. L’appello è stato quindi rigettato e la compagnia telefonica condannata a restituire i soldi all’utente oltre a pagare le spese processuali.

 

 

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