I giornalisti di cronaca giudiziaria non devono sostituirsi agli organi investigativi nella ricostruzione dei fatti di reato

Diritto di cronaca e delitto di diffamazione sono due mondi troppo spesso confliggenti. Dove finisce l’uno e comincia l’altro, è solitamente definito nelle sentenze dei tribunali.

Recentemente la Corte di Cassazione (sent. n. 54496/2018) ha assolto dal reato di diffamazione ascritto a carico di una giornalista dell’Ansa, che aveva riportato il nome dell’indagato contenuto in una informativa del Polizia Giudiziaria.

La ricorrente si era difesa in giudizio dichiarando di essersi limitata a riportare sull’articolo gli elementi contenuti nell’informativa, peraltro già messa a disposizione della stampa e trasmessa dal Commissariato di Polizia alla Procura della Repubblica. In tale documento emergevano gravi indizi di reità in ordine al delitto di sfruttamento di lavoratori stranieri in capo all’indagato.

Cosicché secondo la difesa, i giudici di merito, nel condannarla, non avevano tenuto in considerazione dell’esistenza della speciale causa di giustificazione consistente nell’esercizio del diritto di cronaca.

Secondo questi ultimi, al contrario, la giornalista avrebbe dovuto omettere ogni riferimento nominativo nel rispetto dei principi di diritto più volte enunciati dalla stessa giurisprudenza di legittimità che ancorano il legittimo esercizio del diritto di cronaca alla veridicità dei fatti, secondo lo stadio delle investigazioni quale risulta alla data della pubblicazione.

Non sono dello stesso parere i giudici della Corte di Cassazione i quali hanno prima di tutto ribadito che ai fini del bilanciamento degli interessi in conflitto, l’esimente del diritto di cronaca va ricercato nei principi di continenza del linguaggio e verità del fatto narrato, nonché nell’attualità della notizia, ossia nell’interesse generale alla conoscenza della stessa in un certo momento storico.

Con specifico riferimento al diritto di cronaca giudiziaria – aggiunge la Cassazione –, ai fini della configurabilità dell’esimente, il giornalista deve esaminare e controllare attentamente la notizia in modo da superare ogni dubbio (Sez, V, n. 35702/2015) e la cronaca giudiziaria è lecita quando sia esercitata correttamente, limitandosi a diffondere la notizia di un provvedimento giudiziario in sé ovvero a riferire o a commentare l’attività investigativa o giurisdizionale; mentre ove informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario siano utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche tendenti ad affiancare o sostituire gli organi investigativi nella ricostruzione di vicende penalmente rilevanti e autonomamente offensive, il giornalista deve assumersi l’onere di verificare le notizie e di dimostrarne la pubblica rilevanza, non potendo reinterpretare i fatti nel contesto di un’autonoma e indimostrata ricostruzione giornalistica (Sez. I, n. 7333/2008).

Tale impostazione trova ulteriore conferma nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale in varie pronunce, ha individuato nel principio di verità del fatto narrato l’unica esimente di fronte ad una pubblicazione potenzialmente lesiva dell’onore e della reputazione altrui.

Nel caso in esame, l’imputata si era limitata a riportare il contenuto dell’informativa trasmessa dalla Polizia Giudiziaria alla Procura, riassumendone il contenuto e attribuendo ai fatti una connotazione giuridica coerente con i termini della notizia di reato.

Nessuna condanna per diffamazione allora, se il giornalista riporta in un suo articolo una notizia, non solo fedele alla fonte ma anche espressa con linguaggio adeguato in riferimento ai fatti e allo sviluppo delle investigazioni.

 

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