L’oncologo dell’Ospedale Pertini commenta i risultati della ricerca presentata due giorni fa da Favo-Censis che indica in oltre 400 giorni i tempi di attesa per accedere alle cure innovative anti cancro

“Quattrocento giorni di attesa per le terapie innovative anti cancro non possono essere considerati un dato diffuso, ci sono certamente differenze fra le diverse strutture italiane. Il problema dei lunghi tempi di attesa per accedere a questo tipo di cure è d’altra parte un tema reale, in parte dovuto ai costi molto elevati di questo tipo di trattamenti. Queste terapie costano fino a 20 mila euro al mese e purtroppo in questi casi bisogna confrontarsi con i criteri di risparmio indicati dallo Stato”.

Antonio Maria Alberti, della Struttura Complessa di Oncologia dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma, non nasconde le problematiche con cui ogni giorno medici e pazienti devono convivere nella sfida contro il cancro e non si sottrae dal commentare i risultati della ricerca svolta dalla Favo-Censis e presentata in occasione della giornata del malato oncologico, in cui sono evidenziati i lunghissimi tempi di attesa per accedere alle cure oncologiche innovative.

“Esiste un problema nel rapporto costi/benefici – prosegue Alberti. Con onestà bisogna affermare che le terapie innovative non sempre, anzi purtroppo solo raramente, sono risolutive e portano alla guarigione, mentre nella maggior parte dei casi sono utili soprattutto per allungare le aspettative di vita del paziente. Certamente la FAVO fa bene a battersi in favore di un accesso più diffuso alle cure, purché si seguano protocolli condivisi, come quelli dettati dall’Aifa“.

“A mio giudizio – ha spiegato l’oncologo del Pertini – occorrerebbe aprire un tavolo di confronto sull’utilizzo dei farmaci e sui loro costi, insieme all’Aifa che è l’organo preposto ad approvare o meno l’utilizzo degli stessi. Un altro problema è quello territoriale: spesso le cure innovative sono disponibili solo presso le grandi strutture, in cui si concentrano molti pazienti con conseguenti e a quel punto inevitabili problemi di malasanità. In Italia non abbiamo centri di ricerca e i gruppi farmaceutici investono poco nel nostro Paese. In sintesi, abbiamo le menti, ma non siamo più all’avanguardia nella produzione. Yale, per fare un esempio, si finanzia con i brevetti che produce”.

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