Deve confermarsi la misura della custodia cautelare in carcere per chi rivolge alle vittime messaggi vocali minacciosi e messaggi dai contenuti infamanti pubblicati su Facebook. Questi ultimi costituiscono documenti e mezzo invasivo di comunicazione, che oltrepassa la vicinanza fisica con la vittima e permane come atteggiamento inquietante ancor più presente nella sfera di libertà ed autonomia del destinatario

Il Tribunale per il riesame di Messina, in accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero, applicava all’indagato, la misura della custodia cautelare in carcere in relazione al reato di maltrattamenti in famiglia (di cui all’art. 572 cod. pen.) ai danni della donna con la quale aveva intrattenuto un rapporto di convivenza ed a cui aveva rivolto reiterate e gravi offese, minacce di morte anche a mezzo di telefono. Molti dei messaggi (vocali) erano stati indirizzati anche al legale della donna, quale ritorsione per avere preso le difese della stessa; l’indagato, inoltre aveva anche pubblicato sui social network messaggi dal contenuto infamante nei confronti della vittima.

Per gli stessi fatti l’uomo era stato già sottoposto alla misura cautelare del divieto di dimora con divieto, altresì, di comunicazione a carattere telefonico e telematico nei confronti della persona offesa e della figlia di entrambi; successivamente, esteso anche all’utilizzo dei social network. Divieto che tuttavia, era stato trasgredito; indi, la richiesta di custodia cautelare in carcere.

Contro l’ordinanza di applicazione della misura cautelare predetta, l’indagato presentava, per il tramite del proprio difensore, ricorso per Cassazione, deducendo l’illogicità e l’inadeguatezza del provvedimento.

Il punto della Cassazione

La Cassazione rigetta il ricorso perché inammissibile e aspecifico.

A detta dei giudici Ermellini, la trasgressione al divieto di comunicazione con le persone offese, inglobato nel provvedimento di divieto di dimora, che concreta la fattispecie addebitata, in una delle sue modalità attuative, autorizza la configurazione di una delle manifestazioni dei maltrattamenti aggravati, potendo la prova di esse desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente, che ha rivolto alle vittime messaggi vocali minacciosi, e messaggi dai contenuti infamanti pubblicati su Facebook. Questi ultimi costituiscono documenti e mezzo invasivo di comunicazione, che oltrepassa la vicinanza fisica con la vittima e permane come atteggiamento inquietante ancor più presente nella sfera di libertà ed autonomia del destinatario. Si caratterizza sul piano della interazione tra il mittente e il destinatario – in relazione al profilo saliente dell’oggetto giuridico della norma incriminatrice – per la incontrollata possibilità di intrusione, immediata e diretta, del primo nella sfera delle attività del secondo (Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015; Sez. 3, n. 38681 del 26/04/2017).

Dunque, a nulla vale eccepire, come accaduto nel caso in esame, la circostanza che l’indagato non avrebbe mai violato, nel merito, le prescrizioni imposte, per non per non avere mai intrattenuto contatti fisici con i propri familiari, dal momento che gli strumenti informatici, se utilizzati con finalità di minaccia grave, vista anche la loro intrinseca potenziale diffusività, presentano carattere fortemente invasivo nella vittima, posto che quest’ultima non vi si può sottrarre se non disattivando la connessione (con conseguente lesione, in tale evenienza, della libertà di comunicazione e corrispondente alterazione della quiete e tranquillità psichica, comprensibilmente turbate da esasperazione e spavento).

 

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