Il risarcimento del danno da mancato guadagno richiede un rigoroso giudizio di probabilità svolto in presenza di elementi certi presentati dalla parte non inadempiente

Il danno da mancato guadagno presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta; sono invece esclusi i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte.

E’ quanto chiarito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 5613/2018. Gli Ermellini si sono pronunciati sulla controversia insorta tra una società di mediazione immobiliare e un cliente. Oggetto della contesa: la validità del contratto stipulato tra le parti relativo alla vendita di alcuni box auto.

Nello specifico, la Corte d’appello, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato la risoluzione del contratto per inadempimento del cliente. Questi, aveva revocato alla società l’incarico di mediazione dopo soli 21 giorni dal conferimento dello stesso.

Una scelta che, secondo il Giudice di secondo grado, era in evidente violazione dei principi di correttezza e buona fede. Di qui la condanna al risarcimento, nei confronti dell’azienda, del danno da mancato guadagno, o cosiddetto lucro cessante, nella misura di oltre 135mila euro.

Il cliente si era quindi rivolto al Palazzaccio, invocando la violazione dell’art. 1223 del codice civile in materia di risarcimento del danno.

La Suprema Corte ha effettivamente ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte. Per gli Ermellini, la liquidazione del danno da mancato guadagno richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera probabilità). Valutazione, questa, che può essere equitativamente svolta in presenza di elementi certi offerti al giudice dalla parte non inadempiente per desumere l’entità del danno subito.

Nel caso esaminato, la Corte d’appello aveva parametrato il mancato guadagno alle provvigioni che la società avrebbe incassato portando a termine l’incarico. L’azienda, in tre settimane aveva raccolto ben otto proposte d’acquisto; di conseguenza era da ritenersi “altamente probabile” che tutti i box sarebbero stati venduti entro il termine di validità dell’incarico, ovvero ulteriori 10 mesi.

La Cassazione, tuttavia, non ha ritenuto corretto il ragionamento del giudice a quo; questi aveva legato il giudizio di “alta probabilità” a un “dato di fatto tutt’altro che significativo”. Le mere proposte d’acquisto, infatti, possono anche non essere accettate dal venditore. Esse “non sono automaticamente destinate a sfociare nella vendita e neppure a far sorgere un vincolo giuridico tra le parti”.

In base a tali considerazioni, la Suprema Corte ha accolto l’impugnazione presentata dal ricorrente. La sentenza di secondo grado, quindi, è stata cassata con rinvio per il riesame alla Corte territoriale.

 

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