Secondo recente giurisprudenza, il danno terminale catastrofale o catastrofico è il danno consistente nella sofferenza patita dalla vittima, che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita

Pertanto, la liquidazione della componente del danno catastrofico non può avvenire mediante “la meccanica applicazione dei criteri contenuti nelle tabelle milanesi che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi, sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso”.

La vicenda

La Corte d’appello di Ancona aveva accertato l’esposizione alle polveri di amianto e la sussistenza del nesso causale tra l’attività lavorativa di quattro lavoratori, poi deceduti, e il mesotelioma pleurico che ne aveva provocato la morte.
In particolare, aveva rilevato quale elemento presuntivo ai fini del nesso causale, la circostanza che nel medesimo complesso produttivo si fossero verificati numerosi altri decessi per la medesima patologia, in relazione ai quali erano in corso procedimenti penali.
Ed invero, la società convenuta non aveva dimostrato, ai sensi dell’art. 2087 c.c., di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo la particolarità del lavoro svolto a tutelare l’integrità fisica dei dipendenti; ma si era, piuttosto limitata ad asserire l’assenza di una condotta colposa ad essa imputabile, e del nesso causale tra la malattia e il decesso dei dipendenti.
Seguiva, pertanto, il legittimo riconoscimento del diritto al risarcimento del danno jure hereditatis ai congiunti delle vittime che tuttavia, la Corte d’appello aveva liquidato in maniera identica per tutti e quattro i lavoratori deceduti.

Il ricorso per Cassazione

Cosicché gli originari ricorrenti decidevano di ricorrere ai giudici della Suprema Corte di Cassazione.
La decisione impugnata, a loro detta, sarebbe stata viziata in punto di quantificazione del danno iure hereditatis, per due ragioni: la prima perché avrebbe fatto applicazione delle tabelle del Tribunale di Roma, anziché quelle del Tribunale di Milano, da loro espressamente richieste, risultando le prime in fatto penalizzanti e, in secondo luogo per aver disposto un risarcimento assolutamente identico per tutte e quattro le vittime.
E il motivo è stato accolto per le ragioni che seguono.

Alcuni chiarimenti in materia di risarcimento del danno iure hereditatis

Con la sentenza n. 15350 del 2015 le Sezioni Unite della Cassazione, sulla base della premessa che, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, hanno stabilito che deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio.
Detto in altri termini, la perdita del bene vita, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi.
E’ invece, trasmissibile iure hereditatis il danno non patrimoniale nelle due componenti del danno biologico “terminale”, cioè di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, configurabile in capo alla vittima, nell’ipotesi in cui la morte sopravvenga dopo apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo e il danno morale “terminale o catastrofale o catastrofico”, ossia il danno consistente nella sofferenza patita dalla vittima, che lucidamente assiste allo spegnersi della propria vita, quando vi sia la prova della sussistenza di un suo stato di coscienza nell’intervallo tra l’evento lesivo e la morte, con conseguente acquisizione di una pretesa risarcitoria trasmissibile agli eredi.

La liquidazione del danno catastrofico

Mentre per la componente del danno biologico la liquidazione ben può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, per la seconda componente, avente natura affatto peculiare, la liquidazione deve affidarsi ad un criterio equitativo puro, che sappia cioè, tener conto della enormità del pregiudizio arrecato.
Il danno alla salute- affermano i giudici della Cassazione – se pure temporaneo, deve considerarsi massimo nella sua entità quando la relativa lesione è talmente elevata da non essere suscettibile di recupero e da esitare nella morte.
Di tale esito infausto, deve tenersi conto e non può certo ritenersi sufficiente, per la liquidazione della componente del danno catastrofico, la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso.

La censura degli eredi delle vittime di amianto ha, pertanto, colto nel segno.

La Corte d’appello aveva fatto cattiva applicazione dei principi di diritto poc’anzi richiamati, avendo liquidato il danno spettante iure hereditatis definendolo come danno da morte o da perdita della vita ed avendo, perciò, rapportato tale danno non alla menomazione temporanea dell’integrità psicofisica patita dai lavoratori poi deceduti, per il periodo di tempo dalla diagnosi al decesso, bensì alla invalidità permanente totale dei medesimi, come se essi fossero sopravvissuti alla malattia per il tempo corrispondente alla loro ordinaria speranza di vita.
Non solo, ma la sentenza impugnata aveva operato una quantificazione del danno identica per tutti e quattro i lavoratori deceduti, senza calibrare il risarcimento in base alle caratteristiche dei singoli casi concreti, tenendo conto, ad esempio, dell’età di ciascuno, della durata della malattia che ha condotto al decesso della concreta gravità e penosità della stessa.

Insomma, errori che andavano censurati.

Cosicché i giudici della Cassazione hanno chiuso il giudizio, ricordando che “l’esigenza di uniformità di trattamento nella liquidazione del danno non patrimoniale, che la giurisprudenza di legittimità, ritiene garantita dal riferimento alle tabelle milanesi, non esclude ma anzi presuppone che la misura del risarcimento sia adeguata alle variabili dei singoli casi concreti, come deve esigersi in applicazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost”.

La redazione giuridica

 
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