La Cassazione (n. 3196/201) ha condannato in via definitiva Trenitalia per discriminazione indiretta nei confronti di una donna che si era candidata per la posizione di Capo Servizio Treno, non assunta per “deficit staturale”

Il giudice di primo grado aveva condannato la società Trenitalia all’assunzione della ricorrente, già ritenuta inidonea per deficit staturale nelle procedure selettive.

La donna era alta meno di 160 cm e pertanto la società di trasporti ferroviari l’aveva ritenuta non idonea al ruolo di Capo Servizio treno, per la quale ella stessa si era candidata.

La sentenza era stata confermata anche dalla Corte d’appello di Roma che, nel frattempo, aveva rigettato il ricorso di impugnazione presentato dalla appellante.

Anche per i giudici dell’appello, si trattava di un caso di discriminazione indiretta, in violazione dell’art. 4 L. 125/1991 come modificato dall’art. 2 D.Lgs. 145/2005 di attuazione della Direttiva 2002/73/CE (in materia di accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e di condizioni di lavoro) poi confluito nell’art. 25 D.Lgs. 198/2006, dal momento che “il rifiuto all’assunzione non era stato oggettivamente giustificato, né comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni comportate dalla suddetta qualifica”.

Il ricorso per Cassazione

A supporto delle proprie ragioni difensive, la società ricorrente richiamava l’art. 25 D.Lgs. 198/2006, in riferimento al D.C.P.M. 411/1987 e al D.M. Trasporti 158/T del 19 settembre 1986, del CCNL 2003 che in relazione alla figura di Capo Treno Servizi pone quale requisito necessario quello dell’altezza superiore a 160 cm e di cui la stessa società si era limitata a prendere atto e ad osservare nelle prassi selettive.

Al contrario, i giudici di merito avevano emesso sentenza senza neppure verificare la necessità in concreto del suddetto requisito di idoneità fisica per le mansioni tecniche di Capo Treno Servizi.

Ma le argomentazioni assunte da Trenitalia non convincono i giudici della Cassazione che, al contrario ritengono sussistente una ipotesi di discriminazione indiretta nei confronti della candidata.

È noto – dichiarano- come le discriminazioni, fondate sul sesso, definite “indirette” si distinguano da quelle dirette.

Soltanto di recente è stato ribadito (Cass. 5 aprile 2016, n. 6575) che solo le disposizioni, i criteri o le prassi che integrino le prime possono, in forza dell’art. 2, n. 2 della direttiva n. 76/207/CEE, evitare la qualifica di discriminazione, a condizione che siano “giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il (loro) conseguimento siano appropriati e necessari” (art. 25, secondo comma D.Lgs. 198/2006), mentre siffatta possibilità non è prevista per le disparità di trattamento atte a costituire discriminazioni dirette, ai sensi dell’art. 2, n. 2 della stessa direttiva (Corte giustizia UE 18 novembre 2010, procedimento C-356/09).

L’onere della prova

Sotto il profilo probatorio, l’art. 40 D.Lgs. 198/2006 stabilisce che è la parte convenuta a dover fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati e idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. 5 giugno 2013, n. 14206; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543).

La correttezza della decisione impugnata

Ebbene, nel caso di specie, i giudici di merito avevano correttamente ritenuto che il limite staturale di 160 cm prescritto, sulla base del quadro normativo oggetto di denuncia relativamente alla procedura di assunzione di personale con qualifica di Capo Servizio Treno, bandita dall’azienda nel 2006, costituisse appunto una discriminazione indiretta, siccome non oggettivamente giustificato, né comprovato nella sua pertinenza e proporzionalità alle mansioni comportate dalla suddetta qualifica.

Nella suddetta valutazione, è stato esattamente applicato il principio di diritto secondo cui, in tema di requisiti per l’assunzione, qualora in una norma secondaria sia prevista una statura minima identica per uomini e donne, in contrasto con il principio di uguaglianza, perché presupponga erroneamente la non sussistenza della diversità di statura mediamente riscontrabile tra uomini e donne e comporti una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime, il giudice ordinario ne apprezza, incidentalmente, la legittimità ai fini della disapplicazione, valutando in concreto la funzionalità del requisito richiesto rispetto alle mansioni (Cass. 13 novembre 2007, n. 23562; Cass. 15 novembre 2013, n. 25734; Cass. 14 dicembre 2017, n. 30083).

E ciò sulla base di un apprezzamento in concreto del non avere “l’azienda”, come “avrebbe dovuto” secondo l’onere probatorio a suo carico sopra illustrato, provato “la rigorosa rispondenza del limite staturale alla funzionalità e alla sicurezza del servizio da svolgere” , a dimostrazione di una congrua giustificazione della statura minima in riferimento alle mansioni comportate dalla qualifica.

Sicché, l’accertamento compiuto dalla corte territoriale e prima ancora dai giudici di merito, risulta incensurabile in sede di legittimità, oltre che ragionevole sotto il profilo della motivazione.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 

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