È possibile provare il diritto all’autodeterminazione del paziente deceduto a seguito di un intervento chirurgico? E, un valido consenso informato può aiutare a ricostruire tale sua ultima volontà?

Un processo che sembra non avere fine, quello oggetto della sentenza in commento. Dopo un primo processo espletato in tutti e tre i gradi di giudizio, la Cassazione ha nuovamente cassato la decisione della corte d’appello di Milano disponendo un nuovo rinvio; e pare che questa volta la soluzione sia vicina.
Si discute di consenso informato in materia di responsabilità medica. Non è mai semplice accertare in giudizio la volontà del paziente deceduto, di sottoporsi all’intervento chirurgico se avesse realmente conosciuto i rischi connessi alla medesima operazione.
Ma è proprio la prova del diritto all’autodeterminazione del paziente ad essere oggetto della contesa in esame. Tale diritto pare avere una tutela autonoma rispetto al diritto alla salute.

La vicenda

Morì durante un’operazione di revisione chirurgica di una protesi all’anca a causa di tromboembolia polmonare massiva da trombosi della vena femorale destra.
Il figlio, in proprio e in qualità di erede di quest’ultimo, convenne davanti al Tribunale di Milano la struttura sanitaria e il medico chirurgo che aveva eseguito l’operazione per ottenerne la condanna al risarcimento di tutti i danni occorsi al padre.
Una CTU acquisita nel giudizio affermò l’impossibilità di una indicazione precisa in termini percentuali della riduzione del rischio trombotico nell’ipotesi in cui fosse stata somministrata una terapia specifica a base di eparina, e sancì l’esistenza di un valido consenso informato sui rischi dell’intervento.
L’evento morte fu ricondotto ad un trombo che si sarebbe potuto formare comunque.
E dunque, il Tribunale di Milano, nel 2004 rigettò le domande attoree per mancato raggiungimento della prova del nesso causale tra la condotta del medico e l’evento fatale.

Il giudizio d’appello

Tale esito non fu confermato in appello, ove con sentenza del 2007, medico e Casa di Cura furono condannati in solido a risarcire al figlio del deceduto, la somma di Euro 5.000, a titolo di risarcimento dei danni.
Ma tale decisione fu cassata all’esito del successivo giudizio di legittimità.
I giudici della Cassazione accolsero il motivo di ricorso relativo alla violazione del diritto del paziente al consenso informato.
Ed in effetti, la sentenza impugnata era errata perché non aveva riconosciuto la lesione del diritto del paziente ad essere informato dei rischi reali, e non vaghi e generici, stampati su un modulo del primo intervento ed in particolare del rischio che l’intervento di artroprotesi dell’anca fosse gravato dall’incidenza di trombosi venosa profonda pari al 50% e, che l’incidenza dell’embolia polmonare mortale si attestasse intorno al 2%; sicchè ove fosse stato informato, il paziente avrebbe potuto chiedere un consulto con lo specialista angiologo e l’esecuzione dell’ecodoppler molto prima che venisse eseguito il secondo intervento.
Non vi erano allora dubbi, in ordine alla prova dell’inadempimento da parte del medico (e quindi della struttura sanitaria) della mancata e completa informazione sul rischio inerente il primo intervento; diversamente il ricorso veniva rigettato relativamente al secondo profilo del consenso informato per il secondo intervento riparatore.
Cosicché la vicenda fu rimessa nuovamente, alla Corte d’Appello di Milano per il prosieguo del giudizio al fine di determinare il quantum del risarcimento.

Il secondo giudizio d’appello e il ricorso per Cassazione

Riassunto il processo, le istanze del ricorrente furono di nuovo respinte. E sì perché a detta della corte milanese – questi avrebbe omesso di allegare e quindi di provare, neppure in base ad un ragionamento presuntivo, l’esistenza e l’entità di un danno riferibile alla violazione del diritto di autodeterminazione per carenza di consenso informato, limitandosi a semplici asserzioni, sia circa la possibile rilevazione di un trombo sia circa la possibile richiesta di esami preventivi.
E così il processo giungeva nuovamente in Piazza Cavour.
La decisione della Corte d’appello è stata tuttavia, dichiarata nulla essendosi, evidentemente, discostata dai principi enunciati nel primo giudizio di legittimità, spingendosi a rivalutare l’an del risarcimento, sul quale era già sceso il giudicato.
Peraltro, vi è consolidata giurisprudenza per cui “il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla “regola” giuridica enunciata ma anche alle premesse logico-giuridiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione senza poter estendere la propria indagine a questioni che, pur se non esaminate nel giudizio di legittimità, costituiscono il presupposto stesso della pronuncia di annullamento, formando oggetto di giudicato implicito interno, atteso che il riesame delle suddette questioni verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della sentenza di cassazione, in contrasto col principio di intangibilità” (Cass., L, n. 17353 del 23/7/2010; Cass., 5, n. 20981 del 16/10/2015).

La violazione del diritto di all’autodeterminazione

La corte d’appello aveva escluso il risarcimento della voce del danno all’autodeterminazione del paziente, asserendo che, posto che il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione si collocano su piani distinti dando luogo a diverse voci risarcitorie, il ricorrente avrebbe dovuto provare (cosa che invece, non ha fatto) il pregiudizio specifico derivante dalla violazione del diritto all’autodeterminazione.
Il ragionamento non è stato condiviso dagli Ermellini: quale altro danno avrebbe dovuto provare il congiunto della vittima se non quello da sempre dedotto in giudizio?
Parimenti la sentenza impugnata, andava cassata, per aver fatto mal governo delle norme in tema di presunzioni, giungendo alla conclusione che il paziente si sarebbe certamente sottoposto all’intervento anche qualora fosse stato informato delle conseguenze potenzialmente lesive del medesimo.
Tale giudizio contro-fattuale è stato censurato; e accolto il ricorso la sentenza è stata nuovamente cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, per un nuovo esame della vicenda.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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1 commento

  1. è la solita, e non digerita, distinzione tra danno puro (così l’ho appellato in quanto soffro perché non ho potuto autodeterminarmi: di prova agevole perchè, come recentemente confermato, non ha bisogno della prova che il paziente, in presenza dell’informazione corretta, avrebbe negato il consenso) e quello che chiamo danno funzionale (identificabile nelle complicanze che, taciute, sono insorte all’esito di un trattamento pur perito: in tale caso il risarcimento di dette complicanze è condizionato alla prova, diabolica, che se ben informato il paziente avrebbe negato il consenso). E’ quanto si deduce sin dalla 2847/2010. Tuttavia domande incerte, ed una giurisprudenza di merito altrettanto incauta, hanno determinato l’affollamento di decisioni infelici. Ne parlerò molto più diffusamente nella nuova edizione dell’opera di UTET “La responsabilità medica” le cui bozze sono in correzione. Un cordiale saluto Avv. Nicola Todeschini

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