La donna era appena rientrata dalla maternità. Per la Cassazione non vi erano elementi tali da giustificare il cambio di sede lavorativa

Licenziata dopo aver rifiutato il trasferimento in una sede distante centocinquanta chilometri. E’ quanto a accaduto a una donna appena rientrata a lavoro dopo un anno e quattro mesi di maternità. La lavoratrice, ritenendo ingiusto il provvedimento, aveva rifiutato di riprendere l’attività lavorativa e tale condotta aveva determinato il licenziamento.
Il caso è approdato in Cassazione dopo che la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato la società a reintegrare la lavoratrice dichiarando la nullità del trasferimento, delle sanzioni disciplinari e del licenziamento.
Il giudice di secondo grado, in particolare, aveva evidenziato che non sussistevano ragioni che giustificassero il trasferimento e pertanto le decisioni datoriali erano da ricondurre a un “disegno discriminatorio nei confronti di una lavoratrice madre”, spettando alla ditta, secondo quanto previsto dalla normativa in tema di pari opportunità (decreto legislativo n. 198/2006, articolo 40) l’onere di provare il contrario.
Inoltre anche il rifiuto della donna di riprendere a lavorare dopo la comunicazione del trasferimento era da considerarsi giustificato sulla base dell’articolo n. 1460 del codice civile relativo all’eccezione d’inadempimento, ovvero la valutazione comparativa dei reciproci inadempimenti e la loro proporzionalità, “alla stregua della funzione economico-sociale del contratto e la loro incidenza sugli interessi delle parti”.
Nei confronti della decisione della Corte d’appello la società datrice presentava ricorso davanti alla Suprema Corte sottolineando che in realtà erano state rispettate tutte le norme dettate in tema di licenziamento giustificato e contestando l’accusa di comportamento discriminatorio nei confronti della lavoratrice. Alla donna, infatti, sarebbero state attribuite, secondo la ricorrente, mansioni equivalenti a quelle svolte in precedenza, mentre alla base del trasferimento vi sarebbero state comprovate ragioni organizzative, tecniche e produttive.
I giudici di Piazza Cavour, tuttavia, con la sentenza n. 15435 del 26 luglio 2016 rigettavano il ricorso, confermando l’adeguata valutazione della Corte d’appello rispetto agli elementi emersi in corso di giudizio e alla loro portata indiziante, oltre che l’applicazione corretta della normativa vigente. In particolare gli Ermellini ribadivano che spettava al datore di lavoro provare, l’insussistenza della discriminazione, “posto che tale conclusione è stata raggiunta sulla base della motivata ricognizione di elementi di fatto idonei a fondare, con i requisiti di legge, l’accertamento della sua esistenza”.
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