Luigi De Gennaro è professore di Psicobiologia e Psicologia Fisiologica e di Psicofisiologia del Sonno normale e patologico. «Responsabile Civile» lo ha interpellato per parlare di disturbi del sonno e di numeri: ne è uscita una lunghissima conversazione a tutto campo sulla sua professione e sullo stato della ricerca in Italia.

Luigi De Gennaro - disturbi del sonnoDottor De Gennaro, partiamo dal dato presentato in occasione della Giornata mondiale del sonno: ne emerge che quasi la metà della popolazione mondiale soffre di disturbi del sonno, numeri importanti…

È bene chiarire subito che questi numeri vanno contestualizzati. Proprio come per i sondaggi, bisogna capire che tipo di domanda è stata posta agli intervistati: insomma, quando si danno i numeri bisogna capire cosa stanno raccontando. In questo caso, sono riferiti a tutto l’arco della vita: quindi, non è una fotografia trasversale dell’intera umanità. Questi numeri, piuttosto, ci dicono che ogni individuo, singolarmente preso, prima o poi nel corso della vita avrà un disturbo del sonno. E già così cambia molto la dimensione pandemica del dato. Ma c’è una seconda specificazione da fare: questi numeri non nascono da uno status clinico diagnostico, ma dalla lamentela di un problema.

Ma quali sono i disturbi del sonno più diffusi?

Fatto salvo quello che abbiamo detto in precedenza, la classe che maggiormente incide sui numeri dei disturbi del sonno è quella delle insonnie. Se prendiamo in esame l’umanità del pianeta Terra (sempre considerando lo stesso metro di misura, cioè “prima o poi nella vita aver avuto un problema di insonnia”), abbiamo per le insonnie numeri che arrivano fino al 25%. Cifre importanti che, tuttavia, anche in questo caso vanno relativizzate.

Cosa intende?

Molti soffrono di un disturbo in fase acuta, cioè legato ad eventi esterni che determinano una insonnia reattiva all’evento traumatico, e che non qualifica un soggetto come “insonne”, perché non si tratta di un modello di disturbo di tipo cronico (che, invece, ha un peso più importante).

Dopo quanto tempo linsonnia può essere definita cronica?

Il criterio temporale convenzionale che differenzia l’insonnia acuta da quella cronica è di sei mesi: o meglio, averne sofferto in maniera continuativa per più di sei mesi. Anche in questo caso (sempre riferendoci al criterio del “prima o poi nella vita” di cui sopra) parliamo di numeri importanti, perché in alcuni casi si arriva fino al 10%. Vuol dire che, solo in Italia, c’è una platea di 6 milioni di potenziali pazienti: per questo, possiamo dire che è di gran lunga il disturbo del sonno più diffuso e anche, mi si perdoni l’espressione, il più maltrattato.

In che senso?

Maltrattato, in tutte le accezioni del termine, ma soprattutto nel senso di “mal trattato”: purtroppo, la risposta che le persone tipicamente danno al problema è l’approccio farmacologico. Le insonnie vengono trattate con i farmaci in percentuali che potremmo dire vicine al 90-95%: ma i farmaci non sono la soluzione del problema; pur con diversa concezione e diversa natura, permettono solo la sospensione del sintomo insonnia, e solo per la notte in cui li si assume; questo vuol dire che accompagneranno il paziente per buona parte della vita. Eppure, i maggiori enti di sorveglianza neurologica, medica, psicologica del mondo ci dicono che esistono trattamenti di tipo non farmacologico che rimuovono le cause.

Come si spiega allora, questo ricorso così massiccio alla terapia farmacologica?

È una risposta complessa… in questo processo c’è, certamente, una parte di business. Ma non è tutto. Un’altra parte è rappresentata dalla classe medica, o perché non formata adeguatamente, o, perché, “abituata” a un rapporto stretto con la farmacologia. Infine, c’è sicuramente una terza responsabilità da attribuire a noi stessi: molti non sono a conoscenza dei trattamenti, ma, anche quando sono culturalmente preparate, non sempre le persone scelgono quello che dovrebbero. Perché i trattamenti non farmacologici chiedono un discreto impegno e il cambiamento di credenze e comportamenti. E questo spiega perché, purtroppo, in tanti scelgono il cronico utilizzo di farmaci, cioè la non-soluzione che, anzi, rappresenta l’anticamera di una serie di conseguenze non desiderabili.

Su cosa agiscono i trattamenti non farmacologici?

Sono trattamenti che fanno ricorso a metodi cognitivo-comportamentali e alludono al cambiamento di cognizioni e di comportamenti. Lo fanno in tempi moderatamente brevi, perché sono cicli che si risolvono in sei-sette incontri, però richiedono una trasformazione interiore. In Italia, purtroppo, i terapeuti abilitati si contano sulle dita di una mano.

Questo mi fa pensare che si tratti di disturbi molto sottovalutati, ma che, invece, hanno risvolti importanti anche da un punto di vista meramente economico…

Abbiamo tre forme di costi sociali che paghiamo: il primo è quello che sottraiamo all’operatività e all’efficienza lavorativa dell’insonne non adeguatamente trattato; il secondo è quello che paghiamo come cittadini per questi farmaci; il terzo, più complesso, lo paghiamo in termini di responsabilità sociale quando sussistono quadri patologici ipnici di sonno che ormai documentatamente danno sonnolenza: il rischio non è solo quello di fare del male a se stessi, ma anche a terzi.

La Legge italiana in questo ultimo campo come si è mossa? 

Proprio di recente è stata recepita una direttiva europea che obbliga a subordinare la concessione e la revisione della patente di guida proprio alla valutazione della sonnolenza diurna che le commissioni dei medici del lavoro dovranno valutare con appositi test. Allo stato attuale mancano solo i decreti attuativi. Tenga conto che chi ha studiato cercando di scorporare in tutto il parco dell’incidentistica stradale la componente legata al sonno o all’eccessiva sonnolenza, ha trovato a volte dati spaventosi: in alcuni casi, quasi 1 incidente su 2 è ascrivibile – direttamente o indirettamente – a problemi di vigilanza e sonnolenza. Stiamo parlando, allora, di costi sociali altissimi. Ma per far funzionare le nuove regole, il legislatore deve stanziare fondi adeguati per predisporre appropriati strumenti: perché le valutazioni devono essere realizzate da tecnici e professionisti preparati.

Come è messa lItalia dal punto di vista della ricerca sul sonno e sulla clinica del sonno?

Meglio di quanto potremmo immaginare: esiste una scuola italiana che è tra le migliori d’Europa. Esistono diversi centri del sonno pubblici, autorizzati e riconosciuti per fare la diagnostica: quindi, abbiamo una discreta copertura per quel che riguarda l’offerta clinica diagnostica dei disturbi del sonno. Per quel che riguarda la ricerca, invece, si fa o nelle strutture prevalentemente universitarie, come nel mio caso, oppure si fa in contesti clinici: anche qui, abbiamo un livello nella ricerca tra i migliori d’Europa, quasi sorprendentemente se, come al solito, si pensa che ci si muove con una scarsissima erogazione di finanziamenti.

Ecco, proprio a questo proposito, la domande reale è: come si riesce a sostenere limpegno importantissimo della ricerca anche da un punto di vista economico?

La risposta è difficile. Noi rispetto all’Europa stanziamo una percentuale del PIL tra le più basse in assoluto e questo dato non riguarda solo il sonno, ma la ricerca in generale. Ed è una drammatica miopia dell’Italia che non guarda avanti, perché siamo destinati a regredire sempre più: quanti più anni passeranno, tanto più si sconterà questo debito di conoscenza e di applicazione in vari ambiti della conoscenza. Noi studiosi del sonno, quindi, siamo in buona compagnia… come molti di quelli che fanno ricerca in Italia, in tanti se ne vanno o hanno dovuto dedicarsi ad altro, per l’incapacità di questo sistema paese di capitalizzare l’investimento fatto in formazione superiore e specialistica. Ma questo è un dato sconfortante che, come dicevo, non riguarda solo il sonno.

Però, nel vostro progetto relativo ai pazienti malati di Alzheimer siete riusciti ad avere la sovvenzione statale.

Questa, devo dire la verità, è una fortunata eccezione. Tenga conto che in Italia, il sistema ricerca, ha una principale fonte di finanziamento che è il Ministero della Ricerca Scientifica: nel nostro paese solo pochi mesi fa si è fatto un nuovo turno di finanziamento, ma dopo tre anni… Nel nostro caso specifico, ci è andata bene 3 anni fa, il progetto era autorevole e ambizioso e mi permetto di dire che ha portato a grandi risultati in tutte le sue varie parti. Ora continueremo a lavorare anche senza risorse economiche, purtroppo usando le risorse umane, nel senso di laureandi, dottorandi, cioè giovani che inseguono il sogno della ricerca.

Proprio parlando di Alzheimer, anche la dott. Spadin dellAIMA ci aveva già fatto notare come in realtà si crei in questo modo un circolo vizioso che probabilmente andremo a scontare da qui a qualche anno…

Certo. L’Alzheimer costa al paese tantissimo e costerà sempre più. Perché ogni malato è inserito in un sistema famiglia e si tratta di malattie lunghe visto che non c’è un immediato rischio di mortalità: per cui, a volte, si va incontro ad anni e anni di cure con costi altissimi. Quindi non investire in ricerca, vuol dire aumentare notevolmente le voci di spesa.

Il vostro studio, però, sembra dare buone speranze. Quindi la ricerca se ben indirizzata dà i suoi frutti?

Bisogna considerare, che, purtroppo, c’è sempre il problema del salto tra il dato scientifico e l’applicazione. Allo stato attuale, poi,  quando una persona è in una fase di Alzheimer sostanzialmente espresso, non c’è trattamento che tenga: la neurodegenerazione non può essere arrestata. Quando si presenta un quadro pre-clinico di decadimento cognitivo lieve, ugualmente, quasi assistiamo passivamente al fatto che a un certo punto si apre una forbice: alcuni convertono nella malattia, altri no. E, ovviamente, in tanti stanno lavorando per capire quale sia il meccanismo che scatta. Poi c’è un passo ancora precedente che interessa la genetica e la familiarità: ma, anche in questo caso, una volta appurata la presenza di fattori genetici che determinano un rischio alto, al momento, non c’è ancora la possibilità di bloccare l’Alzheimer. I centri in tutto il mondo lavorano in maniera diversa su tre fronti: miglioramento delle condizioni di chi ha già la malattia in corso; la parte più consistente si concentra sui quadri pre-clinici, cercando di individuare cos’è che fa la differenza; infine, c’è la ricerca nel futuro, quella che sposta le lancette ancora prima e lavora sul rischio genetico.

A cura di Monica Gasbarri

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