La Corte di Cassazione ha confermato il divieto di avvicinamento dell’ex marito indagato per stalking nei confronti della moglie

Minacce reiterate, con continue e asfissianti comunicazioni a mezzo telefono, facebook e whatsapp. Per tale condotta il Gup aveva applicato a un uomo la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla ex moglie.

Dopo la conferma del provvedimento da parte del Tribunale del riesame, l’uomo si era rivolto alla Corte di Cassazione denunciando vizi di motivazione. A suo avviso le  minacce che gli venivano imputate non si erano mai consumate. Inoltre si sarebbe trattato di un solo episodio risalente a un anno e sette mesi prima dell’adozione della misura cautelare. L’uomo sottolineava poi come prima della separazione non vi fosse stato alcun comportamento negativo da parte sua.

La Suprema Corte, tuttavia, con la sentenza n.21693/2018 ha ritenuto inammissibile il ricorso proposto. L’ordinanza impugnata, infatti, aveva accertato i plurimi messaggi offensivi molesti e minacciosi indirizzati dall’indagato alla persona offesa nel considerevole periodo indicato in querela.

Il Giudice del riesame aveva ritenuto credibile il racconto della donna relativo a due messaggi minacciosi che le erano stati inviati dall’ex marito. Messaggi che avevano causato nella stessa persona offesa un evidente stato di timore. La deduzione secondo cui le minacce non si erano concretizzate era dunque da ritenere manifestamente infondata.

Il riferimento all’epoca delle minacce, secondo gli Ermellini, poteva venire in rilievo sul piano del presupposto cautelare.

Tuttavia non inficiava la tenuta del provvedimento impugnato sotto il profilo degli indizi ex art. 273 del codice di procedura penale (Riunione di procedimenti relativi alla stessa causa). Il Tribunale del riesame, infatti, aveva argomentato circa l’aggravamento della condotta persecutoria successivamente alla conoscenza, da parte dell’indagato, della relazione allacciata dalla persona offesa.

Quanto allo stato d’ansia o di timore della persona offesa, invece, l’ordinanza impugnata lo aveva dedotto dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente. Condotte ritenute idonee a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante.

La Cassazione ha poi ritenuto manifestamente infondate anche le censure relative al presupposto cautelare. L’ordinanza impugnata, infatti, dava conto dell’attualità del periculum, in termini coerenti ai dati indiziari richiamati e immuni da vizi logici.

 

 

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