A seguito dell’entrata in vigore del nuovo Ordinamento Forense, introdotto con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, il Consiglio Nazionale disponeva una novella del codice deontologico che veniva approvato nella seduta del 31 gennaio 2014. Eccone il testuale tenore:

  • Accordi sulla definizione del compenso
  1. La pattuizione dei compensi, fermo quanto previsto dall’art. 29, quarto comma, è libera. È ammessa la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale;
  2. Sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.
  3. La violazione del divieto di cui al precedente comma comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.

La norma – per la sua inutile, esoterica cripticità – merita di essere inserita a pieno titolo nel museo degli orrori del diritto. E ciò – si badi – a prescindere dal merito, per nulla condivisibile.
L’introduzione della nuova modifica legislativa suscita diversi problemi d’interpretazione: in particolare risulta evidente la necessità di un coordinamento tra i commi 3° e 4° dell’art. 13 della L. 242/2012 e dei commi 1° e 2° dell’art. 25 del nuovo Codice deontologico. Infatti, con le ultime modifiche introdotte dal Legislatore, mentre appariva certa l’illegittimità dei patti consistenti nella cessione di una parte del bene controverso ex art. 13 comma 4° L. 242/2012 ed ex art. 25 comma 2° C.d.F., altrettanto non si poteva dire per l’altra configurazione di questo patto, ovvero l’ipotesi in cui il compenso fosse parametrato al risultato pratico dell’attività o ad una percentuale sui valori dei beni oggetto della controversia.

Ma andiamo con ordine.

1. La ratio del divieto

La ratio che sin qui ha ispirato il divieto (?) del patto di quota lite risiedeva nella necessità di salvaguardare la terzietà del professionista rispetto alle sorti della vertenza, corollario del più ampio principio della dignità e del decoro dell’avvocato. Insomma, ove il compenso del legale fosse – in tutto o in parte – legato a una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa, lo stesso mancherebbe di serenità e obbiettività. Tale asserita mancanza di serenità sarebbe tuttavia una caratteristica esclusiva degli avvocati. Ed infatti la Suprema Corte (Cass. 2.10.2014, n. 20839) ha stabilito il seguente principio di diritto: “la disposizione di cui all’art. 2233, terzo comma, cod. civ. – nel testo in vigore prima della sostituzione ad opera dell’art. 2, comma 2-bis, del decreto-legge n.223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n.248 del 2006 – nel prevedere la nullità del c.d. patto di quota lite si riferisce esclusivamente all’attività svolta da professionisti abilitati al patrocinio in sede giurisdizionale e non anche all’attività amministrativo-contabile svolta dal consulente del lavoro in ambito previdenziale e finalizzata al conseguimento di sgravi fiscali”. Vale ancora la pena di osservare che questa presunta mancanza di serenità e obbiettività, se coinvolti economicamente nell’esito della vicenda giudiziaria, non solo riguarderebbe unicamente gli avvocati (e non, per esempio, un consulente del lavoro come ci ricorda la pronuncia della Suprema Corte appena citata) ma – in via quasi esclusiva – gli avvocati italiani. Ed infatti la contingent fee (negli Stati Uniti) e la conditional fee (in Inghilterra e Galles) sono calcolate solitamente su di una percentuale netta di quanto percepito dal cliente vittorioso secondo l’eloquente espressione: no win no fee. Al 2010 le contingent fee erano ammesse nei seguenti Paesi: Australia, Brasile, Belgio, Canada, Repubblica Dominicana, Francia, Grecia, Irlanda, Giappone, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti. Evidentemente – secondo la ratio che ispira il nostro divieto – gli avvocati americani, inglesi e così via non sono né dignitosi né decorosi!

2. L’unico patto di quota lite sicuramente legittimo

E’ quello – ha stabilito Cass. 4 febbraio 2016, n. 2169 – stipulato dopo la conclusione di tutta l’attività difensiva, cioè a conclusione dei giudizi seguiti dall’avvocato. Ipotesi, quest’ultima, evidentemente, del tutto residuale.

3. Vietato il patto di quota lite sul risultato concreto ottenuto

La percentuale può essere rapportata solo al valore astratto dei beni in contesa ma non al concreto risultato ottenuto. In pratica sul valore della domanda a prescindere dal suo accoglimento e alla misura dello stesso. Così, se il valore della domanda (per esempio, per il danno subito) è 100, sarebbe lecito concordare con l’assistito una percentuale del 25%. Già, ma che succede se il Giudice liquida 50 al posto dei 100 richiesti? Il cliente dovrebbe sempre e comunque versare all’avvocato il 25% di 100 (la richiesta) e non già il 25% di 50 (l’ottenuto). E’ evidente che un simile criterio – l’unico legittimo secondo la legge – si traduce in un patto che nessun assistito accetterà mai e nessun avvocato si sognerà di proporre poiché basato sull’improbabile equipollenza tra il chiesto e l’ottenuto. Ma è proprio questa l’interpretazione, per es., del Consiglio Nazionale Forense (sentenza 30 dicembre 2013, n. 225) che stabilisce che “la percentuale può essere rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, ma non la può essere al risultato”.

In conclusione, il patto di quota lite rimane vietato e tale divieto andrebbe abolito perché figlio di una visione arcaica e novecentesca dell’avvocatura, visione incapace di guardare non solo al futuro ma persino al presente.

Avv. Franco Di Maria

 

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4 Commenti

  1. Esimio avvocato,
    pur comprendendo in parte il suo disappunto relativo alla situazione attualmente vigente in Italia riguardo al patto di quota lite, specialmente in relazione ad altri paesi che lei menziona nei quali però il sistema giuridico è radicalmente diverso dal nostro, mi preme rappresentarle che esso è giustamente regolamentato e soprattutto limitato A TUTELA DEGLI ASSISTITI, in quanto, come può facilmente evincere dalle varie sentenze del CNF che si sono susseguite negli ultimi anni e per ultima quella della Cassazione a Sezioni Unite 25012/14, i ricorrenti di dette vicende erano persone sprovvedute e addirittura pesantemente invalide alle quali è stato proposto, dal legale che doveva assisterle, un patto di quota lite fortemente lesivo dei loro interessi approfittando della loro situazione di incapacità.
    Ciò che voglio dire è che un patto di quota lite completamente libero indurrebbe molti avvocati a violare non il codice deontologico, ma il codice etico morale, approfittando di persone sprovvedute, che invece dovrebbero essere tutelate.
    Ben venga invece il compenso parametrato in percentuale sull’affare, in maniera però sempre proporzionata al lavoro da svolgere, che da un lato da la possibilità a chi non è abbiente di ingaggiare un legale e dall’altro riconosce un compenso ragionevolmente più alto dei tariffari, ma sempre equo e proporzionato come già ribadito.
    E’ certo che quanto detto sopra si traduce comunque e praticamente nella corresponsione della parcella a risultato raggiunto e che invece in caso di insuccesso, pur rimanendo comunque il diritto dell’avvocato di escutere le somme pattuite dal suo assistito, se questi è indigente non sarà in grado di pagare nulla.
    Vorrà dire che l’avvocato ha malamente valutato la situazione, avviando un azione legale che credeva di vincere, ma che poi si è rivelata fallimentare e che se voleva invece avere la sicurezza di essere pagato, nei limiti del tariffario, doveva assistere chi era in grado di far fronte alle spese via via.

    • Caro Alessandro, ciò che gli avvocati possono fare adesso è peggio del patto di quota lite, in quanto possono anche richiedere i soldi in caso di insccesso e comunque possono fare anticipare le spese. Nel patto di quota lite, nato per i meno “possidenti”, i clienti non anticipano le spese mai che non è cosa da poco. Poi dell’alea del giudizio, ne vogliamo parlare? Io non so se lei è avvocato, io da medico legale penso che quando il risultato non è certo, il patto di quota lite è solo un vantaggio per il cliente. L’ipocrisia lasciamola agli altri per favore.
      Un caro saluto

  2. Caro dott. Gallipò,
    Le premetto che non sono avvocato e le rispondo per ogni punto:
    per quanto riguarda l’alea del giudizio i sopraccitati patti di quota lite vengono SEMPRE e SOLO accettati dai legali quando questa è praticamente nulla, e parlo per esperienza diretta e indiretta, pertanto essi costituiscono un vantaggio esclusivamente per il LEGALE che utilizza come specchietto per le allodole il presupposto che in caso di insuccesso non verrà pagato nulla .
    QUALE AVVOCATO ACCETTEREBBE UN TALE ACCORDO IN UNA LITE TEMERARIA ANCHE SE FOSSE il 50% DI 1 MILIONE?
    Solo uno sprovveduto, e di sicuro la parte più sprovveduta tra l’avvocato e l’assistito è sicuramente la seconda.
    Inoltre è assolutamente falso che non vengono richiesti anticipi di spese quando invece questa vengono sempre richiesti!! Si faccia un giro sul sito per la tutela degli espropriati e dia un occhiata al patto di quota lite che propongono a % solo in caso di ricezione delle somme e con anticipi di varie migliaia di Euro!

    La parcella percentuale che come dice lei nasce per la tutela degli assistiti ha valore e logica SOLTANTO SE QUESTA E’ PROPORZIONATA AL LAVORO SVOLTO e solo RAGIONEVOLMENTE MAGGIORE DEI TARIFFARI così da dare benefici sia al legale che all’assistito in quanto il primo porterà a casa una parcella maggiore rispetto ai tariffari forensi, ma comunque proporzionata, il secondo potrà avvalersi della tutela di un legale anche se non abbiente.
    Per quanto riguarda il principio secondo cui il ricorrente non paga nulla in caso di insuccesso, esso è praticamente già vero anche con la norma attuale in quanto se si decide di assistere un nullatenente in caso di insuccesso egli non sarà in grado di pagare.

    La norma è stata così concepita per il decoro della professione forense e soprattutto per colpire i furbi e gli avvocati dotati di scarso o nullo senso etico-morale.

    Si faccia un giro sul sito del consiglio nazionale forense e vedrà che le sentenze che si sono susseguite negli ultimi anni hanno davvero dell’incredibile: patti di quota lite sottoscritti a risultato raggiunto, patti di quota lite pari al 30% di un risarcimento danni di 800k in una causa praticamente senza alea in cui il ricorrente era un’extracomunitario invalido al 95%, patti di quota lite sottoscritti a chi aveva subito gravi danni da errata terapia radiologica paria al 25% di 1milione, tutte queste vicende praticamente sempre senza alea e a danno degli assistiti!!!
    https://www.codicedeontologico-cnf.it/?tag=45-cdf

    • Caro Alessandro se lei ha avuto esperienze negative mi dispiace, ma le dico che ove un cliente anticipa i soldi dopo aver firmato un patto di quota lite certamente ha subito un “inganno” e quindi va difeso e tutelato. Io conosco tante associazioni e studi legali che ai propri clienti non fanno mettere una mano in tasca e chiedono patti di quota lite miti quando si tratta di rca.
      Giri su internete e ne troverà assai.
      Un caro saluto

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