Perché questo dubbio? Perché mi sento confuso quando leggo una sentenza di cassazione che recita così:
“La totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso per cassazione, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata, costituisce un indizio idoneo a configurare, ex art. 2727 c.c., la responsabilità prevista dell’art. 385, comma 4, c.p.c. (nella formulazione applicabile ratione temporis), che prevede la condanna, anche d’ufficio, della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, entro un importo massimo, se si ritenga che il ricorso per cassazione sia stato proposto o allo stesso si sia resistito anche solo con colpa grave”,
e un’altra che recita così:
“Il ricorso è fondato – per quanto di ragione – in relazione ai motivi secondo, terzo e quarto.
E’ noto che – secondo i principi che governano la responsabilità contrattuale – la struttura e i sanitari che siano convenuti in giudizio per ipotesi di malpractice sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c., con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale prova (compreso il mero dubbio sull’esattezza dell’adempimento) non può che ricadere a loro carico.
È noto, altresì, che la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può tradursi, sul piano processuale, in un pregiudizio per il paziente (cfr. Cass. n. 1538/2010) e che è anzi consentito il ricorso alle presunzioni “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato” (Cass. n. 11316/2003; cfr. Cass. n. 10060/2010); tali principi, che costituiscono espressione del criterio della vicinanza alla prova nel più ampio quadro della distribuzione degli oneri probatori, assumono speciale pregnanza in quanto sono destinati ad operare non soltanto ai fini della valutazione della condotta del sanitario (ossia dell’accertamento della colpa), ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la condotta medica e le conseguenze dannose subite dal paziente (cfr., oltre alle citate Cass. n. 11316/2003 e n. 10060/20109, anche Cass. n. 12218/2015).
Va inoltre considerato – in fatto – che non può dubitarsi (e non hanno mostrato di dubitarne né i consulenti d’ufficio, né la Corte di Appello che ha aderito alle loro conclusioni) che, nel caso in esame, le difficoltà presentate dalla neonata al momento del parto comportassero la necessità di un attento monitoraggio post-natale, al fine di cogliere tempestivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento.
Tanto premesso, deve ritenersi che la Corte abbia errato laddove, a fronte di un vuoto di ben sei ore nelle annotazioni della cartella clinica, ha ritenuto di condividere l’ipotesi – formulata dai consulenti d’ufficio – che la neonata non potesse essere stata lasciata senza assistenza e non ‘avesse avuto problemi, anche perché al mattino le condizioni cliniche erano stabili’. Tali conclusioni meritano censura sia sotto il profilo del vizio motivazionale (anche nei ristretti termini in cui esso assume rilevanza ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5) che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica. Non può sfuggire, infatti, l’irriducibile antinomia esistente fra la constatazione della carenza delle annotazioni e l’affermazione della plausibilità dell’ipotesi che – ciononostante – la neonata fosse stata ben monitorata: si tratta, infatti, di una conclusione che è contraria alle effettive risultanze documentali e che viola il criterio secondo cui l’imperfetta compilazione della cartella clinica non può tradursi in uno svantaggio processuale per il paziente (anziché per la parte cui il difetto di annotazione è imputabile), traducendosi in un inammissibile vulnus al criterio che onera la parte convenuta della prova liberatoria in merito all’esattezza del proprio adempimento. Considerato che l’errore ora censurato attiene ad un passaggio centrale del percorso argomentativo della decisione impugnata, deve disporsi la cassazione della sentenza (con assorbimento dei profili non esaminati) e il rinvio alla Corte di Appello, per il nuovo esame della controversia alla luce dei principi sopra richiamati e delle discrasie evidenziate”.
La prima delle due sentenze la troverete commentata su queste pagine il prossimo mercoledì dal bravissimo Avv. De Luca Maria Teresa (trattasi della sentenza n° 3376 del 22 febbraio 2016 – Estensore M. Rossetti), la seconda è la numero 6209 del 31 marzo 2016 (Rel. Sestini Danilo).
Tornando al quesito posto nel titolo deduco che esistono anche sentenze temerarie che producono sfiducia ed i cui estensori dovrebbero essere sanzionati alla stessa stregua degli avvocati che presentano ricorsi temerari.
Non può pensarsi che “Giuristi” con la G maiuscola non conoscano le regole del gioco, mentre spesso mi viene il dubbio e, per trasparenza, penso che sia una coscienza colpevole.
Come afferma l’estensore dr. Rossetti, può un avvocato avanzare un diritto quando questo viola, senza adeguata motivazione, i principi consolidati della giurisprudenza.
La stessa cosa sembrerebbe dire il relatore Sestini quando evidenzia l’errore e le contraddizioni dei Giudici di Corte di Appello quando “…tali conclusioni meritano censura sia sotto il profilo del vizio motivazionale (anche nei ristretti termini in cui esso assume rilevanza ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., n. 5) che sotto quello della violazione dei criteri di distribuzione dell’onere della prova, alla luce della pacifica carenza di annotazioni nella cartella clinica”.
Come si può pensare che ‘professionisti’ del diritto possano fare ‘incoscientemente’ questi errori? Sarebbe assurdo pensare che avvocati cassazionisti e giudici di appello non abbiano nel loro bagaglio culturale concetti fondamentali del diritto, o ove lo abbiano, non motivano, nel caso da loro esaminato, le contraddizioni per il caso specifico?
Quindi mi domando, perché gli assistiti di tali avvocati debbano pagare per gli errori dei loro patrocinatori, mentre i giudici di merito non debbano pagare per i danni che procurano (in termini di tempo, di sofferenza e di diminuzione della qualità della vita di relazione) a chi giudicano con le loro sentenze?
Leggo, quando entro nelle aule di giustizia, ‘la legge è uguale per tutti’, ma penso che non sia proprio così, penso invece che ci siano cittadini che debbono essere giudicati e altri che non ‘possono’ essere giudicati per i loro errori.
Allora, ripeto, quanto è civile questa Italia?
Dr. Carmelo Galipò