Il Tribunale condannava l’imputato nel primo grado di giudizio per il delitto di estorsione e la Corte di Appello confermava in maniera parziale la sentenza di primo grado, assolvendo l’imputato, Tizio, solo per taluni fatti

In questa breve disamina giurisprudenziale ci occuperemo del reato di estorsione, consumato dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore, il quale è costretto dal primo ad accettare importi minore rispetto alla cifra indicata in busta paga, dietro la minaccia di licenziamento.

In particolare, la Suprema Corte ha oramai pacificamente affermato il Principio di Diritto secondo cui integra il delitto di estorsione, ex art. 629 c.p., “…la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate…”.

Orbene, nella vicenda sottoposta all’attenzione degli Ermellini (sentenza 45413/2018), Tizio, datore di lavoro, veniva condannato per il delitto di estorsione consumato nei confronti di Caio, lavoratore, in quanto nell’ottica accusatoria il primo avrebbe assunto il secondo con contratto a tempo indeterminato, con l’accordo però che lo stipendio erogato al lavoratore per i primi sei mesi di attività lavorativa sarebbe stato inferiore rispetto a quello indicato in busta paga, asserendo infine che se non avesse accettato tale illegale condizione, sarebbe stato licenziato.

Il Tribunale condannava l’imputato nel primo grado di giudizio per il delitto di estorsione e la Corte di Appello confermava in maniera parziale la sentenza di primo grado, assolvendo l’imputato, Tizio, solo per taluni fatti; infine, la Suprema Corte, dichiarava inammissibili le doglianze difensive.

Ebbene, emergeva innanzitutto dall’integrale carteggio processuale che i lavoratori vivevano tutti in un clima di “sostanziale sudditanza”, essendo una prassi diffusa all’interno dell’azienda quella di erogare un importo inferiore rispetto alla cifra indicata in busta paga.

Pertanto, piena valenza probatoria veniva conferita alla dichiarazione resa in dibattimento dal denunciante/lavoratore, Caio, il quale, peraltro, aveva bisogno di lavorare proprio per il sostentamento della propria famiglia.

Inoltre, la Corte di Cassazione rilevava – a conforto quindi della sentenza condanna e dunque dell’affermazione della penale responsabilità del datore di lavoro, Tizio – che nel reato di estorsione, anche la prospettazione di un “non facere”, che nel caso di specie consisteva nella mancava, ab origine, assunzione, senza accettare la illecita riduzione salariale”, può integrare il delitto p. e p. dall’art. 629 c.p., così come pacificamente affermato da numerose, precedenti e consolidate pronunce della Corte di Legittimità.

Infine, per completezza di esposizione, occorre rilevare in questa sede che altra doglianza difensiva atteneva al trattamento sanzionatorio irrogato all’imputato.

In particolare, la difesa riteneva che vi fosse stato, nel caso in esame, una riforma in pejus, con conseguente illegittimità della sentenza gravata.

Per converso, la Suprema Corte, nella sentenza oggetto di questa mia breve disamina, riteneva che alcuna violazione di Legge vi fosse stata, con specifico riguardo proprio al trattamento sanzionatorio, dichiarando, pertanto, infine, inammissibile il ricorso.

Avv. Aldo Antonio Montella

(Foro di Napoli)

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