Farmaco potenzialmente dannoso. 1 su un milione la probabilità di effetti indesiderati. Quali sono le “misure idonee” che l’azienda farmaceutica deve adottare per evitare ogni responsabilità? È sufficiente informare i consumatori attraverso il foglietto illustrativo o è necessario rinunciare tout court alla commercializzazione del prodotto?

Nel 2006 l’attore conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Bergamo una società farmaceutica, chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti e subendi per effetto della patologia sofferta a seguito dell’assunzione di un farmaco prescritto per curare una ferita alla mano destra.
Ebbene, in conseguenza dell’assunzione di tale farmaco, egli aveva sviluppato una gravissima sindrome, nota come sindrome di Lyell, con grave intossicazione e gravi conseguenze, anche permanenti alla salute.
Una CTU espletata in primo grado, aveva accertato il nesso causale tra l’assunzione del farmaco e la comparsa della sindrome, quale complicanza nota della terapia ma non prevedibile né prevenibile.
Perciò, con sentenza resa nel novembre del 2013 il Tribunale di Bergamo rigettava la domanda, ritenuta l’applicabilità alla fattispecie, della disciplina di cui al d.P.R. n. 224/1988 in materia di responsabilità extracontrattuale del produttore per prodotti difettosi, ed affermando che, quand’anche si volesse ritenere applicabile l’art. 2050 c.c., doveva ritenersi sussistente la prova liberatoria offerta dalla convenuta, trattandosi di effetti indesiderati noti la cui rara possibilità di insorgenza, all’esito di una valutazione comparativa rischi/benefici, non avrebbe impedito la distribuzione del prodotto ma avrebbe richiesto – come in effetti ottemperato dalla società distributrice del farmaco – un’adeguata informativa al pubblico dei consumatori, tramite l’indicazione, nel foglio illustrativo allegato al farmaco, del rischio di sindrome tra i possibili effetti collaterali.
La decisione veniva riformata in secondo grado. Per la Corte d’appello di Brescia, la fattispecie non andava inquadrata sotto l’alea normativa del citato d.P.R. n. 224/88, non potendo il farmaco in questione, considerarsi difettoso.

Doveva, invece, trovare applicazione l’art. 2050 c.c.

L’attività di produzione e distribuzione di farmaci deve essere inquadrata come attività pericolosa, per la quale “l’ordinamento giuridico pone il rischio della verificazione degli effetti dannosi a carico di chi può effettivamente governare quel rischio, accollando al medesimo il compito di predisporre effettivi strumenti di esclusione dell’evento dannoso e comunque il rischio economico connesso alla necessità di risarcire i danni conseguenti al verificarsi di eventi avversi”.
L’azienda farmaceutica, a detta della corte territoriale, non aveva fornito la necessaria prova liberatoria prevista dall’art. 2050 c.c.; non potendo ritenersi sufficiente a tal fine la sola segnalazione dei possibili effetti collaterali nel bugiardino del farmaco.
Perciò, quest’ultima veniva condannata a corrispondere al danneggiato, la somma di 222.867 euro a titolo di risarcimento danni.

Inevitabile il ricorso per Cassazione.

Ed in vero per la società ricorrente, la decisione impugnata era errata. Non doveva trovare applicazione l’art. 2050 c.c. ma, in ogni caso, anche ammettendo che tale ricostruzione giuridico-fattuale fosse stata corretta, la corte avrebbe dovuto ritenere integrata la necessaria prova liberatoria.
A ciò doveva aggiungersi che l’attività di produzione e di distribuzione di quel farmaco era stata autorizzata a monte da specifiche competenti commissioni le quali avevano valutato il rapporto costi-benedici e ritenuto che l’utilità della somministrazione di quest’ultimo, fosse infinitamente superiore alla possibilità, del tutto remota (1 su 1 milione di casi) ma comunque sussistente, della comparsa della grave sindrome di Lyell.
E pertanto, l’unica misura adottabile per rendere noto il rischio di tale rarissimo effetto collaterale era quello di fornire una adeguata informativa ai potenziali danneggiati: ciò significa che produttore e distributore devono avere cura di specificare, nel foglietto illustrativo allegato al farmaco, le avvertenze sulle modalità di somministrazione, le caratteristiche del farmaco stesso e i possibili effetti collaterali, essendo ignote le cause che producono lo sviluppo della necrosi epidermica tossica.

Ma è proprio così?

Sulla vicenda si sono pronunciati anche i giudici della Cassazione che hanno ritenuto valide le motivazioni dedotte dal ricorrente.
La decisione impugnata non è – a detta del Supremo Collegio, – conforme alla lettera della legge (art. 2050 c.c.), non essendo in alcun modo plausibile che l’azienda farmaceutica debba, a fronte di un effetto indesiderato di cui non si conosca la matrice, optare tra l’assunzione dei rischi connessi agli effetti di una responsabilità di tipo sostanzialmente oggettivo e la rinuncia alla produzione e alla commercializzazione del prodotto.
Peraltro, sostenere (come hanno fatto i giudici dell’appello) che l’unica alternativa possibile per evitare responsabilità era quella per l’impresa, di rinunciare tout court alla commercializzazione del prodotto potenzialmente pericoloso, è una prospettazione assurda oltre che non praticabile dal momento che tutti i farmaci sono potenzialmente forieri di effetti collaterali tossici, ma al tempo stesso la loro produzione e commercializzazione costituisce attività socialmente utile.
Una corretta applicazione dell’art. 2050 c.c. avrebbe imposto, invece, al giudice di merito di valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco (questione nella fattispecie, non controversa); dall’altro, l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato, dovendosi precisare che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori.
Per tali motivi la sentenza impugnata è stata cassata.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
Leggi anche:
INSULINA IN PILLOLE: POTREBBE AVERE MENO EFFETTI COLLATERALI?

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui