I giudici della Cassazione hanno confermato l’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., anche al caso di favoreggiamento commesso in favore del fratello della propria convivente di fatto

Nei casi di delitti contro l’amministrazione della giustizia non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto, da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.
A stabilirlo è l’art. 384 del codice di procedura penale, in forza del quale, il coniuge o il familiare o prossimo congiunto dell’imputato, sentito nel processo penale a suo carico non ha l’obbligo, in via generale, di dire la verità. Non si tratta dunque, di un normale testimone.
La ragione è piuttosto semplice. Non può certo pretendersi (sarebbe inumano) di minacciare di pena colui che realizza questo comportamento a favore di un proprio congiunto, o comunque di una persona alla quale è legata da vincoli di sangue. Il legislatore ne comprende il vissuto psicologico, il dilemma se rispettare la legge o seguire il legame familiare, rinunciando, in quest’ultimo caso a punirlo.
Si concretizza, dunque, una ipotesi di non punibilità.
La deroga al regime generale non si limita, tuttavia, alla falsa testimonianza ma si estende a tutti i delitti contro l’amministrazione della giustizia. Si pensi, ad esempio, al reato di favoreggiamento personale.

È il caso in esame.

La corte d’appello di Venezia aveva confermato la sentenza di primo grado con cui era stato condannato un uomo per favoreggiamento.
Secondo la teoria accusatoria, egli avrebbe aiutato il fratello della propria convivente a sottrarsi alle ricerche dei carabinieri, ospitandolo all’interno della propria abitazione e, successivamente, fornendo false informazioni agli organi di polizia in ordine alla presenza dello stesso, nella propria casa.
Con ricorso per cassazione, l’uomo chiedeva la censura della la sentenza impugnata per violazione di legge.
La corte territoriale non avrebbe, infatti, ritenuto configurabile l’esimente di cui all’articolo 384 c.p., in ragione dell’assunto che l’evaso era il fratello della propria convivente e perciò non avrebbe potuto essere considerato giuridicamente, “prossimo congiunto” secondo la nozione di cui all’art. 307 c.p.
Non è così per il ricorrente, secondo il quale al contrario, la decisione non aveva tenuto conto delle recenti riforme intervenute nel diritto di famiglia e, in particolare, della legge 20 maggio 2016 n. 7 che, all’art. 1 lett. a), ha esteso l’esimente alle unioni civili.
Del pari, l’art. 8 CEDU che fa riferimento ad una nozione onnicomprensiva di famiglia, alla cui tutela accederebbero anche i c.d. rapporti di fatto.

Sulla vicenda si sono pronunciati i giudici della Sesta Sezione penale della Cassazione che hanno accolto il ricorso.

Ad essere infatti, in contestazione non era il rapporto di stabile convivenza, peraltro consolidata nel tempo, tra l’imputato e la sorella dell’evaso, dalla quale aveva avuto cinque figli e, nel cui interesse era stata commessa la condotta di favoreggiamento.
Si trattava piuttosto, di verificare se nell’ambito di tali rapporti (di convivenza di fatto) fosse applicabile la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p.; e già perché come anticipato, l’ultima riforma, nota come Legge Cirinnà, ha esteso la nozione di prossimi congiunti soltanto alle parti delle unioni civili.

L’evoluzione della normativa in tema di rapporti familiari

È indubbio -affermano i giudici della Suprema Corte – che rispetto all’impianto codicistico del 1930, solo recentemente sono state introdotte disposizioni che danno rilievo alla convivenza more uxorio.
Significativo è il caso del delitto di maltrattamenti in famiglia, trasformato nel 2012 in “maltrattamenti contro famigliari e conviventi”; ed è altresì, noto che in assenza di interventi legislativi, l’adeguamento delle norme penali alla mutata realtà sociale dei rapporti di coppia debba confrontarsi da una parte, con il divieto di analogia (nei casi in cui l’equiparazione dei rapporti di convivenza a quelli che traggono la propria fonte costitutiva nel matrimonio produrrebbero effetti in “malam partem”) e, dall’altra, con il carattere eccezionale delle disposizioni via via considerate (nel caso, invece, di effetti “in bonam partem”).
Il tema coinvolge non solo la scusante di cui all’art. 384 c.p. riguardante i delitti contro l’amministrazione della giustizia, ma anche la causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p., in materia di delitti contro il patrimonio.
Dottrina e giurisprudenza hanno da tempo sollecitato un intervento del legislatore con riferimento alle convivenze more uxorio.
E non ci si può dimenticare dell’intervento della corte costituzionale che ha riconosciuto alla famiglia legittima “una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio” (sent. n. 310/1989), mentre la famiglia di fatto è invece fondata sull’affectio quotidiana di ciascuna delle parti, liberamente e in ogni istante revocabile (ord. n. 121/2004), pur assumendo anch’essa rilevanza costituzionale, ma nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali garantite dall’art. 2 Cost.

L’intervento della Corte costituzionale e la Legge sulle unioni civili

In tali pronunzie si è posto in luce che, senza dubbio, la convivenza more uxorio costituisce un rapporto ormai entrato nell’uso e comunemente accetto, accanto a quello fondato sul vincolo coniugale, ma si è anche aggiunto che questa trasformazione della coscienza e dei costumi sociali, non autorizza la perdita dei contorni caratteristici delle due figure.
Ha fatto seguito, un nuovo intervento della corte costituzionale che ha espressamente chiesto una presa di posizione del legislatore, dalla quale è scaturita la l. 20 maggio 2016, n. 76 anche nota come Legge Cirinnà, che ha introdotto l’istituzione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
L’art. 1 comma 36 della predetta legge, anche regolamentato, le convivenza di fatto ossia quelle tra “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, matrimonio o unione civile che, si distinguono da quelle di mero fatto, in quanto la formalizzazione della convivenza è data dalla dichiarazione anagrafica”, ampliando cosi, in maniera rilevante i diritti e le facoltà anche per questi ultimi.

Convivenza di fatto: unione civile o convivenza more uxorio?

L’applicazione della legge 76/2016 al diritto penale ha creato non poche difficoltà oggettive che derivano dalla contrapposizione, o dalla divergenza di discipline tra coppie “unite civilmente” e “conviventi di fatto”.
Cioè nell’ambito della “convivenza di fatto” si possono distinguere due condizioni: l’una in senso stretto, in cui manca un atto formale per qualificarlo giuridicamente, l’altra, quella disciplinata dalla legge Cirinnà che al contrario, ha un riconoscimento ufficiale da parte dell’ordinamento.
Ma per i giudici della Cassazione, al di là del dato formale, l’espressione convivenza di fatto deve essere intesa agli effetti penali, nel significato più ampio, corrispondente a quello che tradizionalmente assume il concetto di “convivenza more uxorio”: una situazione caratterizzata da una comunione materiale e spirituale paragonabile a quella prevista per il rapporto coniugale, con esclusione della “unione civile”.
Per tali ragioni, è stato ritenuto applicabile anche al caso in esame l’art. 384 c.p. e, cosicché la sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 
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