Cosa rischia il pubblico ufficiale fotocopiando un atto pubblico non esistente in originale? La Suprema Corte, a questo proposito, si è espressa sui rischi della fotocopia di un documento inesistente in originale fornendo delle precisazioni interessanti.

Con la recente pronuncia n. 5452/2018, la Corte di Cassazione si è occupata del reato di falsità materiale in presenza della fotocopia di un atto pubblico inesistente.

I giudici, infatti, hanno ribadito la volontà di aderire al precedente principio maggioritario. Secondo questo, integra il reato in questione commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici, la formazione di un documento presentato quale mera riproduzione fotostatica di atto pubblico. Un atto, dunque, non esistente in originale.

Nel caso di specie, è intervenuta la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, a seguito di ricorso promosso dalla difesa da un imputato. Questi aveva impugnato la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Milano, in conferma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Milano, per i reati di falso (artt. 476 e 482 c.p.) e truffa aggravata.

Nel ricorso, la difesa lamentava vizio di legge in riferimento agli artt. 476 e 482 c.p., da parte del Giudice di appello.

In riferimento all’art. 476 c.p., osservava la difesa che la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito in precedenti pronunce un punto importante.

Ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 476 c.p. non è necessaria una falsificazione di un atto pubblico, ma la condotta può riguardare anche una copia fotostatica. Fotocopia di un atto pubblico idonea a far apparire esistente l’atto stesso, ingannando perciò la pubblica fede. Qui, però, mancava l’atto originale.

Tutti i documenti di cui era contestata la falsificazione erano, cioè, solo mere copie fotostatiche senza timbro né attestazione di conformità ad un atto pubblico originale.

Ebbene, nel caso di specie, i Giudici pur non disconoscendo tale orientamento, hanno aderito a quello maggioritario.

Questo considera penalmente rilevante la condotta, posta in essere dal pubblico ufficiale, di formazione di un atto quale fotocopia di un atto pubblico inesistente, perché idoneo a trarre in inganno la pubblica fede.

In particolare, l’esistenza di una copia avente i caratteri apparenti di un atto pubblico, postula la contraffazione dell’atto presupposto.

E, aggiungono i giudici, “affinché sussista il reato in esame non è affatto necessario che vi sia un intervento materiale su un atto pubblico, essendo sufficiente che attraverso la falsa rappresentazione della realtà operata dalla fotocopia tale atto appaia esistente, con lesione della pubblica fede”.

Pertanto, integra la fattispecie di cui all’art. 476 c.p. anche l’alterazione sulla fotocopia di un atto pubblico esistente. Ovvero, la creazione artificiosa di una fotocopia di un atto inesistente.

E questo tanto più quando la provenienza dell’atto e le circostanze del suo utilizzo ne facciano presumere la conformità all’originale.

“La falsità, invero, è integrata non tanto e non solo dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente (che nel caso di specie non c’è), ma anche dalla mendace e attuale rappresentazione di una siffatta realtà probatoria, creata appunto attraverso un simulacro o una immagine cartolare di essa (fotocopia o anche fotomontaggio), che è intrinsecamente idonea a ledere (e lede) il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, costituito dalla pubblica affidabilità di un atto, qualunque esso sia, proveniente dalla pubblica amministrazione”.

 

 

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