Una sentenza della Cassazione fa chiarezza sui rischi nei quali può incorrere chi decide di guardare la pay tv illegalmente

Cosa rischia chi decide di guardare la pay tv illegalmente?
La Corte di Cassazione ha fornito importanti precisazioni a riguardo con la sentenza n. 46443/2017.
Con questa, i giudici hanno stabilito – per un uomo colpevole di guardare la pay tv illegalmente – una condanna a 4 mesi di carcere e 2mila euro di multa.
Nel caso di specie esaminato dai giudici, l’uomo aveva guardato mesi di pay tv dopo aver messo in piedi un complesso sistema per farlo senza sborsare un euro.
Il soggetto utilizzava un decoder ad hoc, collegato a internet, tv e satellite, con il quale poteva guardare la pay tv illegalmente, nello specifico Sky.
Nel farlo non si era munito della prevista smart-card. Cosa che, una volta scoperto il trucco, gli è costato 4 mesi di carcere e 2mila euro di multa.

La condanna, inflitta dalle corti di merito, è stata anche confermata dalla Cassazione penale che ha ritenuto corretta la decisione dei giudici.

Nella vicenda, la Corte d’appello di Palermo ha confermato integralmente la sentenza di primo grado.
L’uomo è stato condannato quindi alla pena di quattro mesi di reclusione ed euro 2mila di multa.
Questa la pena per avere “installato un apparecchio con decoder regolarmente alimentato alla rete LAN domestica ed internet collegato con apparato TV e connessione all’impianto satellitare così rendendo visibili i canali televisivi del gruppo SKY Italia in assenza della relativa smart card”.

Il soggetto, però, ha deciso di ricorrere in Cassazione.

Questo poiché deduceva “l’erronea qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 171 octies L.633/1941, norma del tutto residuale riservata esclusivamente ad attività illecite a livello professionale, deponendo invece il riferimento ad un canone imposto per l’accesso alla visione dei programmi dell’emittente Sky e lo scopo di lucro sotto il profilo soggettivo da contrapporsi a quello fraudolento, assente nella fattispecie, per la riconducibilità della condotta nell’alveo normativo dell’art. 171 ter comma 1. lett.f) L. 633/1941”.

Insomma, secondo l’uomo i giudici non avevano tenuto conto della sua versione dei fatti, poiché lo stesso aveva acquistato i codici di decodifica sul web.

Per i giudici di Cassazione, però, le tesi non reggono e il ricorso è considerato inammissibile oltre che infondato.
Questo perché i giudici di Palermo, per la Cassazione, “hanno, invero, ricondotto nell’ambito dell’art.171-octies L. 633/1941 la condotta incriminata, pacificamente consistita nella decodificazione ad uso privato di programmi televisivi ad accesso condizionato e, dunque, protetto, eludendo le misure tecnologiche destinate ad impedire l’accesso da parte dell’emittente, senza che assumano rilievo le concrete modalità con cui l’elusione venga attuata, evidenziandone la finalità fraudolenta nel mancato pagamento del canone applicato agli utenti per l’accesso ai suddetti programmi”.
Non solo.
Per gli stessi giudici risulta evidente che “dalla ricondotta rilevanza penale del fatto nell’alveo della norma così individuata discenda, de plano, l’antigiuridicità della condotta ascritta all’imputato, non potendosi prendere in esame per le ragioni sopra esposte le ulteriori doglianze svolte sul piano motivazionale, peraltro sviluppate nell’orbita delle mere censure di merito”.
Per questa ragione, la condanna è stata confermata e il ricorrente condannato anche al pagamento delle spese processuali e di 2 mila euro a favore della Cassa delle Ammende.
 
 
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