La scoperta e l’ampia diffusione dei nuovi farmaci antivirali diretti di II generazione (DAAs) per l’infezione da HCV  ha determinato una vera rivoluzione nel trattamento delle epatiti croniche da HCV, consentendo in oltre il 95% dei pazienti trattati l’eradicazione del virus e la guarigione o il miglioramento della malattia, sia da un punto di vista clinico che istologico. Altri vantaggi di estremo rilievo dei nuovi DAAs sono rappresentati da :

  • facilità di somministrazione (via orale)
  • affrancamento dall’ interferone, terapia complessa e con molte controindicazioni
  • pressoché totale assenza di effetti collaterali di rilievo
  • possibilità di trattare anche pazienti con malattia avanzata

Questa straordinaria svolta terapeutica oltre a determinare in futuro la possibile eradicazione dell’ HCV dal nostro Paese, non potrà non avere delle importanti ricadute in termini giurisprudenziali, soprattutto per quanto attiene alla valutazione ed alla concessione dei benefici previsti dalla Legge 210/1992.
Come noto, la legge 210/1992 venne promulgata al fine di tutelare i soggetti danneggiati irreversibilmente da complicanze insorte a causa di vaccinazioni, trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati. La legge prevede la concessione di un Indennizzo che consiste in un assegno vitalizio, reversibile corrisposto con cadenza bimestrale, il cui importo varia a seconda della gravità del danno subito dal danneggiato. A ciò si aggiunge il risarcimento dei danni irreversibili subiti a causa della infezione post trasfusionale da HCV.
Le nuove terapia con DAAs di II generazione tuttavia modificheranno nel prossimo futuro questa impostazione, per cui i soggetti in causa a vario titolo (pazienti, avvocati, medici legali, magistrati) non potranno non tener conto della ricaduta che le scoperte della scienza avranno sulle impostazioni della giurisprudenza.
Esamineremo ora brevemente la storia delle terapie per l’HCV, con particolare riferimento all’impatto che le nuove scoperte avranno sulle valutazioni delle CMO, dei giudici e dei CTU.
IL PASSATO REMOTO
Una volta identificato nel 1989 il virus dell’epatite C, si pose il problema di instaurare adeguati trattamenti anti virali per eradicare l’infezione e rallentare la possibile evoluzione della malattia.
A complicare le iniziali strategie terapeutiche e la selezione dei pazienti candidati al trattamento concorrevano tre fattori:

  1. l’esistenza di portatori del virus C con persistente normalità delle transaminasi, ma con presenza di danno epatico istologico anche grave nonostante i valori rassicuranti della biochimica epatica. Un tempo definiti come portatori “sani”, la possibilità di malattia epatica cronica ad onta della normalità delle transaminasi ha indotto a modificare la definizione in quella più precisa di “portatori di HCV con transaminasi normali”;
  2. la necessità di definire il danno epatico solo tramite la biopsia del fegato, misura invasiva, richiedente ricovero in DH o in degenza, non scevra da possibili complicazioni anche gravi;
  3. la disponibilità all’inizio di un unico farmaco antivirale, l’interferone (IFN), gravato da pesanti effetti collaterali e con una efficacia estremamente ridotta.

Per quanto riguarda quest’ ultimo punto, bisogna considerare che l ’interferone non è un anti virale diretto. Si tratta infatti di una citochina con effetti anti proliferativi, immuno modulanti, anti angiogenetici ed anti infiammatori, che agisce quindi sull’HCV in maniera indiretta, cioè stimolando la reazione immune verso il virus con eliminazione delle cellule infette, ed eliminando di conseguenza nei casi più fortunati la replicazione virale intra epatica e la circolazione ematica del virus.
Il primo interferone disponibile negli anni 90 (interferone ricombinante) si rivelò quasi immediatamente come una sostanziale delusione.
Si trattava infatti di una terapia somministrata per via sottocutanea, quindi non sempre agevole, con numerosi effetti collaterali (febbre anche elevata, astenia profonda, leuco-piastrinopenia, scompenso epatico, manifestazioni psichiatriche, innesco di patologie autoimmuni come la tiroidite, ecc), con una percentuale di risposta virologica sostenuta (SVR) estremamente ridotta (<5%), e con numerose controindicazioni che riducevano grandemente il numero di pazienti candidati al trattamento, dal momento che venivano di necessità esclusi pazienti con cirrosi epatica avanzata, soggetti con turbe psichiatriche non compensate dalla terapia, pazienti diabetici gravi, cardiopatici, distiroidei, ecc.
Tra l’altro, l’esistenza di numerosi genotipi dell’ HCV (numerati da 1 a 6), faceva sì che alcuni di essi presentavano risposta scarsissima e quasi nulla al trattamento con IFN (in particolare i genotipi HCV-1 e HCV-4).
Una prima svolta si ebbe a metà degli anni 90 con l’introduzione della ribavirina (RBV). Si tratta di un farmaco antivirale usato da molto tempo, ma con una azione estremamente debole sull’ HCV se somministrato in monoterapia; combinata invece con l’IFN, la RBV ne aumentava l’efficacia (circa 20%), ma anche gli effetti collaterali ematologici, in quanto alla leuco-piastrinopenia da IFN si aggiungeva anemia emolitica da RBV.
Una ulteriore svolta di rilievo si ebbe all’inizio del terzo millennio, con la commercializzazione di una forma di IFN ad azione ritardata (cosiddetto IFN peghilato, PEG-IFN), che presentava numerosi vantaggi rispetto alla terapia tradizionale con IFMN ricombinante + RBV: somministrazione monosettimanale; effetti collaterali minori e maggiormente sopportabili dai pazienti; efficacia sicuramente maggiore (circa 50%), soprattutto nei genotipi cosiddetti “facili” (HCV-2 e HCV-3). Rimanevano peraltro aperti diversi problemi: impossibilità di trattare numerosi pazienti a causa delle possibili complicanze e degli effetti collaterali, percentuale di SVR sempre molto ridotta nei pazienti con genotipi “difficili” (HCV-1 e HCV-4), necessità di lunghi periodi di trattamento (da sei mesi per HCV-2 a 12-18 mesi per HCV-1 e HCV-4).
IL PASSATO PROSSIMO
Le prime avvisaglie della imminente rivoluzione terapeutica si hanno nei primi anni del secondo decennio (dal 2010 in poi), con la scoperta e la commercializzazione dei primi antivirali diretti (DAAs di I generazione). I due farmaci allora disponibili (boceprevir e telaprevir) agivano come inibitori della proteasi virale, bloccando così la replicazione virale portando la SVR ad oltre il 60-70% dei pazienti.
Fu tuttavia chiaro da subito che non si trattava ancora della svolta decisiva, poiché questi DAAs di I generazione avevano a loro volta numerosi limiti: persistente necessità di trattamento combinato con PEG IFN e RBV, numerosi ulteriori effetti collaterali che andavano ad aggiungersi a quelli della terapia standard, costi elevatissimi, mantenimento di tutte le controindicazioni e dei limiti della terapia precedente.
Tuttavia era sensazione comune che la strada verso la terapia ottimale fosse ormai aperta, e che si trattava solo di attendere ancora qualche anno perché la rivoluzione terapeutica si manifestasse a pieno.
IL PRESENTE
L’arrivo dei DAAs di II generazione ha finalmente, rapidamente e drammaticamente cambiato il volto dell’infezione da HCV. Il primo farmaco a disposizione, il sofosbuvir, è stato a breve seguito da numerosi altri DAAs (daclatasvir, simeprevir, ledipasvir, ombitasvir, paritaprevir, ecc).
Questi farmaci agiscono su diversi meccanismi replicativi dell’ HCV : i DAAs il cui suffisso è –previr (ad esempio, simeprevir) sono inibitori delle proteasi; quelli con suffisso –asvir (es, daclatasvir, ledipasvir) agiscono come inibitori del sito NS5A, e quelli che terminano in –buvir (es, sofosbuvir) sono inibitori della polimerasi virale NS5B.
I vantaggi dei nuovi DAAs di II generazione sono immensi:

  1. terapie di breve durata (3-6 mesi)
  2. somministrazione orale
  3. pressoché assenza di effetti collaterali
  4. pressoché assenza di controindicazioni
  5. altissima percentuale di SVR (> 95%)
  6. possibilità di inclusione di pazienti precedentemente esclusi dalle terapia convenzionali
  7. non combinazione con IFN (da cui il termine DAAs IFN-free)

Tra l’altro, la valutazione seriata della fibrosi epatica tramite metodiche non invasive (ad esempio l’elastometria epatica con Fibroscan, una tecnica sensibile e specifica per la determinazione della fibrosi epatica,  del tutto sovrapponibile alla biopsia) ha dimostrato che a breve distanza di tempo dalla guarigione virologica si assiste ad un progressivo miglioramento del quadro della fibrosi, con progressiva riduzione dei valori della stiffness epatica, che in molti casi ritorna nel range di normalità. Corollario di questa situazione è il fenomeno del “delisting”, cioè l’esclusione progressiva dalla lista di trapianto di pazienti cirrotici precedentemente candidati al trapianto; infatti il progressivo miglioramento clinico a seguito della eradicazione del virus rende non più necessario il trapianto stesso.
Dalla scienza alla giurisprudenza
E’ evidente a questo punto che la giurisprudenza dovrà necessariamente tener conto della straordinaria fase che l’epatologia sta vivendo, e dell’impatto che le nuove scoperte avranno in maniera sempre più pressante sulle decisioni del legislatore, delle CMO, dei giudici, dei legali.
La Legge 210/92 prevede un indennizzo per i pazienti con epatopatia irreversibile contratta a seguito di emotrasfusione o somministrazione di emoderivati, cui si aggiunge un risarcimento una tantum, entrambi in funzione della entità del danno riportato.
Vediamo come le nuove terapie potrebbero modificare l’impostazione della 210, esaminando alcuni scenari possibili.

  • Prendiamo il caso di un paziente affetto da epatite cronica da HCV, trattato senza successo con la terapia con IFN + RBV (non responder). Questo paziente avrà diritto sia al risarcimento che all’ indennizzo in base alla gravità del danno riportato, alla mancata risposta, alla persistenza di una patologia epatica potenzialmente evolutiva verso fasi più severe di malattia. Oggi questo paziente sarebbe trattato con i nuovi DAAs IFN-free, riportando la stabile eradicazione del virus, la guarigione completa, la regressione del danno epatico, per cui sia il risarcimento che l’indennizzo andrebbero rimodulati, in quanto si tratterebbe ora di un paziente guarito, senza alcun rischio futuro di progressione di malattia.
  • Il secondo esempio potrebbe riguardare un soggetto con epatite cronica da HCV, trattato favorevolmente con la terapia standard IFN + RBV, con conseguente risposta virologica sostenuta e miglioramento o regressione del danno epatico. In base alla legge 210, il paziente potrebbe avere diritto ad indennizzo e/o risarcimento essenzialmente in considerazione del lungo periodo di trattamento con IFN, degli effetti collaterali riportati, della depressione, delle febbre, forse della sospensione delle attività lavorative, ma si terrebbe conto del fatto che a seguito del trattamento la malattia epatica andrebbe considerata definitivamente guarita. Se lo stesso paziente fosse stato trattato con i nuovi DAAs, non si potrebbe più sostenere né che ha riportato sofferenze da terapia per un lungo periodo, né che la patologia è ancora presente, in quanto si verrebbe a trattare di un soggetto ormai fortunatamente sano, con una guarigione raggiunta senza il minimo effetto iatrogeno.
  • Nel caso di un paziente con cirrosi epatica la situazione giuridica rimarrebbe solo in parte invariata. Anche in caso di eradicazione virale e di miglioramento della malattia, la persistenza di una patologia epatica grave e potenzialmente evolutiva non dovrebbe modificare la concessione di indennizzo/risarcimento, sebbene l’entità degli stessi andrebbe rimodulata in basso,  in funzione di un danno epatico meno rilevante, e soprattutto nella consapevolezza che tutti i dati della letteratura indicano che  l’eradicazione stabile dell’ HCV modifica in maniera drammatica e favorevole la storia naturale della malattia epatica, bloccandone il decorso.

Insomma, per giuristi e medici legali si aprirà una nuova era dove saggezza e cultura dovranno evitare fuorvianti richieste o addirittura evitare le richieste stesse dopo attento screening della malattia, delle conseguenti cure e degli eventuali postumi permanenti.

Prof. Claudio Puoti

Dr. Carmelo Galipò

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2 Commenti

  1. – l’indennizzo è un vitalizio. Vogliamo cambiare la legge? allora cambiamo anche la normativa che regola il pagamento delle pensioni e decidiamo che oltre gli 80 anni non le paghiamo più… fa niente che uno ha pagato i contributi per una vita.
    – e vogliamo parlare delle sentenze che hanno scorporato dal risarcimento l’importo degli indennizzi futuri, sulla base della vita media? Riapriamo tutto il contenzioso allora. Migliaia di cause che costeranno allo Stato molto di più dei 4 miseri soldi che vorrebbe recuperare con la revisione della L210.
    – e come farebbe il Ministaro ad acquisre i dati sensibili relativi ai nominativi dei pazienti curati? Il consenso al trattamento è stato fornito solo per finalità di cura, non certo per finalità amministrative legate al pagamento dell’indennizzo. E qui scatterebbero denunce penali a go-go.

  2. Credo in ogni caso lo stato debba un risarcimento, in caso di revoca dei benefici della legge 210 92, per gli anni che la malato ha vissuto con la malattia che certamente l indennizzo bimestrale non ha pagato. Parlo oltre ai problemi di salute diretti anche delle grandi difficoltà nei rapporti sociali , nel porsi nei confronti dell’altro sesso… Dei propri cari ecc ecc

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