L’anteposizione del cognome paterno al minore riconosciuto in un momento successivo alla nascita ha lo scopo di salvaguardare la bigenitorialità e il ruolo paritario di entrambi i genitori naturali

La vicenda

Dopo il riconoscimento di una minore da parte del suo genitore naturale, il giudice del Tribunale di Tivoli, accoglieva la richiesta di anteposizione del cognome paterno in luogo di quello materno

La madre della bambina presentava allora ricorso per Cassazione, denunciando la decisione impugnata perché in contrasto con l’interpretazione letterale dell’art. 262 c.c. (“il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre”) che – a bene vedere – non consente di equiparare l’ipotesi del riconoscimento contemporaneo con quello avvenuto successivamente per cause non imputabili al padre.

Ed invero, le prove dedotte in giudizio non avevano lasciato dubbi circa l’esclusiva responsabilità del padre per il tardivo riconoscimento della figlia.

La questione giuridica

La questione è interessante perché si muove nel perimetro del tema, più volte affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, dell’attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori.

Da tempo si è detto che i criteri di individuazione del cognome del minore devono porsi in funzione del suo interesse, ossia quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale, avente copertura costituzionale assoluta.

In tal senso, la scelta, anche officiosa del giudice, è ampiamente discrezionale e deve avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all’ambiente in cui è cresciuto fino al momento  del successivo riconoscimento.

Il giudice è investito dall’art. 262, secondo e terzo comma, del codice civile del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da detta disposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all’interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda né la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regole di prevalenza del criterio del “prior in tempore”, né il patronimico, per il quale non sussiste alcun “favor” in sé nel nostro ordinamento.

La decisione

Ebbene per i giudici della Suprema Corte (sentenza n. 18161/2019) in siffatto contesto, esclusa la rilevanza della anteriorità del riconoscimento e quindi delle prove relative alle ragioni di un mancato riconoscimento contemporaneo, il giudice di merito aveva correttamente optato, fra le possibilità previste dal secondo comma dell’art. 262 c.c., per la anteposizione del cognome paterno, chiarendo che la ragione di tale scelta era quella di salvaguardare, anche sotto il profilo identitario che comporta l’attribuzione del cognome, il valore della bigenitorialità e negare invece, un rilievo al collocamento del minore affidato congiuntamente ad entrambi i genitori.

«Si tratta di una scelta – aggiungono gli Ermellini – chiaramente motivata, che consente al minore di rendere percepibile all’esterno la filiazione da entrambi i genitori e che nell’anteporre anziché aggiungere il cognome paterno ha voluto preservare il minore da una raffigurazione, interiore ed esteriore, non paritaria del ruolo dei due genitori».

Una opzione quest’ultima che non può evidentemente ritenersi soggetta al sindacato di legittimità.

La redazione giuridica

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