La paziente dopo una prima operazione, non necessaria secondo i periti, è stata costretta a un secondo intervento che le avrebbe procurato ulteriori problemi in quanto eseguito male

Tutto ha inizio dal ricovero in Ospedale nel 2010 per un intervento di discectomia. La paziente soffre di forti dolori lombari, ma dopo l’asportazione del nucleo polposo di un disco invertebrale la situazione non migliora, anzi, i dolori aumentano.

I medici optano quindi per un secondo intervento che non solo non apporta i benefici sperati ma provoca alla ragazza dei problemi di deambulazione.

Serve una terza operazione, ma la paziente decide di correre ai ripari affidandosi a un’altra struttura e a conclusione di questo calvario intenta una causa nei confronti del nosocomio presso cui sono stati eseguiti i primi due ricoveri.

Nei giorni scorsi è arrivata la sentenza del Tribunale che ha condannato la struttura ospedaliera a un risarcimento di poco superiore ai 100mila euro.

Per valutare il percorso clinico della giovane, i giudici hanno nominato dei consulenti, le cui perizie hanno evidenziato, secondo quanto riportato dai giudici, che “deve affermarsi la responsabilità per imperizia e superficialità dei sanitari che, preliminarmente, decisero di sottoporre l’attrice ad intervento chirurgico senza prima avere adottato un corretto approccio clinico nel trattamento della patologia erniaria, che avrebbe richiesto prioritariamente un approfondimento radiologico e neurofisiologico, il quale avrebbe consentito di verificare la integrità e la funzionalità del midollo, delle radici, dei tronchi nervosi e dei muscoli da essi innervati. Solo all’esito di tali accertamenti poteva essere deciso se sottoporre o meno ad intervento chirurgico o se, piuttosto, adottare tecniche, consigliate dalla comunità scientifica per casi meno gravi, di natura farmacologica (somministrazione di terapia antinfiammatoria) o fisiatrica”.

Il primo errore ravvisato quindi dai consulenti della procura, riguarda la decisione di effettuare l’intervento iniziale, ritenuto non necessario in quanto la patologia poteva essere curata con i farmaci: “Il medico che visitò la paziente qualificò le sue condizioni cliniche gravi pur in assenza di esami specialistici e decise frettolosamente di intervenire chirurgicamente non tenendo, peraltro, conto della giovane età della paziente che all’epoca aveva solo 19 anni”.

L’operazione venne poi portata a termine correttamente “ma l’insorgenza delle più gravi patologie ha indotto i sanitari a eseguire altro intervento tuttavia non compiuto con perizia e correttezza poiché venne rimosso del tutto il processo articolare di destra, causando pertanto una instabilità intervertebrale non eliminata nel corso dello stesso atto, che ha peggiorato le condizioni di salute”.

La direzione dell’Ospedale da parte sua si è difesa sostenendo che i medici della struttura universitaria avrebbero agito con ‘perizia e diligenza’ e affermando che non vi sarebbe nesso di causalità tra la condotta professionale dei sanitari e i danni della paziente.

Il giudice non ha accolto tali argomentazioni e ha imposto al nosocomio la liquidazione del danno basandosi su un principio ormai consolidato stabilito dalla Corte di Cassazione che riconosce le responsabilità autonome dell’ente a prescindere dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, in virtù dell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente.

 

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