ll racconto di una giornalista in attesa 16 ore per un raschiamento, che denuncia: “Non ho perso solo mio figlio ma anche la mia dignità”.

È possibile restare in attesa 16 ore per un raschiamento? A quanto pare sì, perché è ciò che è avvenuto al Fatebenefratelli di Roma a una donna, Francesca Robertiniello, che è anche una giornalista.
La Robertiniello ha deciso infatti di affidare la propria denuncia a una lunga lettera inviata al quotidiano “La Repubblica”.
Una cronaca sofferta che l’ha vista in attesa 16 ore per un raschiamento, un intervento psicologicamente assai delicato che sarebbe dovuto durare non più di 15 minuti.
E che, invece, si è trasformato in una odissea personale.

La sera del 9 ottobre le comunicano, a seguito di alcune perdite sospette, che non c’è più battito e il feto è morto.

“Non c’è urgenza di fare il raschiamento, ma è fortunata: giovedì 12 abbiamo un posto. Alle 7.30″, le dicono.
“La sera di mercoledì 11 smetto di bere e mangiare. L’indomani, alle 7.15, mi presento al pronto soccorso.” Alle ore 10.30 le comunicano che il raschiamento è inevitabile.
“La portiamo nel reparto di ostetricia – le annunciano – Non abbiamo letti disponibili, ma le daremo una barella finché non si libera qualcosa”.
E qui inizia il calvario.
“Il verdetto, dopo oltre due ore di attesa. Mezzora dopo sono seduta su una barella in una stanza con tre donne alle fasi finali della loro gravidanza. Io che un figlio l’ho perso, sono a disagio. Lascio la barella per un letto vero. Mi cambio e attendo l’arrivo delle infermiere per le analisi preliminari”.
Intorno alle 12.30, una dottoressa le consegna le carte per il consenso all’operazione, cui seguirà poco dopo, la conferma ufficiale del raschiamento.
“In un paio d’ore – scrive Robertiello – un ovulo mi avrebbe provocato perdite ematiche e forti contrazioni dell’utero. Torno in stanza e leggo le informazioni sull’intervento. Ma sono come i bugiardini delle medicine. Le mie compagne hanno consumato il pranzo, mentre io cerco di non pensare a quanta fame e sete ho. Voglio solo che quest’incubo finisca presto. Senza opporre resistenza mi faccio inserire l’ovulo, prendo l’antibiotico, saluto il mio compagno e per ingannare il tempo provo a riposare un po’. Due ore dopo iniziano contrazioni e perdite”.

I dolori intanto continuano, senza tregua, ma ancora nessuno viene a chiamarla per l’intervento.

Invece, le viene risposto che la sala operatoria è occupata e che ci sono altre urgenze.
“’Posso farle una dose di morfina’, incalza l’anestesista. Il mio compagno mi bagna le labbra con una garza imbevuta di acqua per lenire la mia sofferenza e maschera la rabbia per la profonda mancanza di rispetto che mi dimostrano da ore. Rifiuto la morfina, ma il dolore non mi lascia scelta. L’ora dell’intervento è ancora lontana.”

Ancora alle 17.30 niente, nessun intervento. Ma la morfina fa effetto e lo stordimento, unito al digiuno che va avanti da almeno 20 ore, è fortissimo.

Alle 19.45 “finalmente mi portano in sala operatoria. Mi riga il volto una lacrima, non ho le forze né di avere paura né di sentirmi sollevata. Alcune domande preliminari, il posizionamento e poi il buio.
Tre quarti d’ora dopo, è tutto finito. “Mi risveglio in una sala gelida. Nessun medico. Accanto a me c’è una donna reduce da un parto cesareo. Le sorrido, ma vorrei capire se sto bene. Mi sollevo piano, prendo la cartella che ho ai piedi e cerco il mio referto. L’umanità del medico è un foglio di carta stampata.”
Alle 21 la donna viene riportata in camera, ma il medico che l’ha operata non c’è. “’Lo incontrerà domani, dopo aver trascorso qui la notte’. Day Hospital, dicevano. Ed io avevo voglia di dormire, ma nel mio letto. È notte, mangio e bevo quanto basta per rimettermi in forze. Firmo la liberatoria e vado via”.
La donna, in attesa da 16 ore per un raschiamento, il giorno dopo può lasciare l’ospedale.
E la sua lettera-denuncia, si conclude così.
“Ventiquattro ore senza mangiare né bere. Non importa se vieni dal Sud e se pensi di aver già visto abbastanza, il punto sembra essere sempre quello: in Italia devi pagare o conoscere qualcuno per ricevere un trattamento umano. E non importa a nessuno se stai vivendo un dramma. Giovedì sera ho perso del tutto il mio piccolo compagno di viaggio di 2,4 cm e in quell’ospedale ho perso parte della mia dignità di donna e di madre. Anche se solo in potenza”.
 
 
 
 
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