Il risarcimento del danno per le infezioni correlate all’assistenza ospedaliera. Ha affrontato il tema la Corte Appello di Roma, con la sentenza n.280 del 16 gennaio 2018

Questa interessante pronunzia tratta la materia delle infezioni contratte in regime di ricovero e derivanti dall’assistenza ospedaliera. In altri termini le cosiddette infezioni nosocomiali.

La vicenda

Il danneggiato chiama in causa l’Azienda Ospedaliera di Frosinone lamentando di avere contratto in ospedale una infezione della ferita chirurgica da cui poi derivava artrosepsi con conseguente insorgere di un ulteriore danno biologico, differente e non riconducibile alla frattura della testa dell’omero e all’intervento chirurgico di osteosintesi.
A causa di tale infezione l’uomo veniva costretto a sottoporsi ad altri interventi chirurgici e nelle more veniva anche licenziato.
Nel giudizio di primo grado si costituiva anche l’Azienda Ospedaliera che affermava l’operato dei sanitari, tempestività e idoneità delle cure antibiotiche.
Il Tribunale adito accoglieva la domanda dell’uomo e condannava l’Ospedale a rifondergli l’importo complessivo di € 325.793,27 comprendente oltre alle voci tipiche di invalidità e inabilità del danno biologico, il danno estetico e la perdita della capacità lavorativa specifica.
Tale decisione seguiva la CTU medico-legale svolta che accertava la natura di infezione nosocomiale.
L’Azienda Ospedaliera propone appello dinnanzi alla Corte territoriale di Roma sostenendo l’insussistenza di responsabilità, nel giudizio si costituiva il danneggiato che in via incidentale chiedeva la condanna al pagamento dell’ulteriore importo di € 174.206,73 a titolo di risarcimento.

I Giudici di secondo grado ritengono infondato l’appello.

In punto di responsabilità richiamano quanto in primo grado osservato sulla riconducibilità dell’infezione alla natura nosocomiale in quanto “trattandosi di frattura di tipo chiuso l’unica via di contagio dell’articolazione omerale doveva rinvenirsi nella ferita aperta durante l’intervento chirurgico” a cui seguivano proprio i primi segnali di infezione e che nessuna responsabilità professionale poteva essere ascritta ai sanitari che intervenivano con una corretta terapia antibiotica, mentre sussiste responsabilità in capo all’Ospedale che non ha dimostrato in giudizio l’inevitabilità dell’infezione.
Sotto tale ultimo profilo i Giudici d’Appello richiamano i consolidati principi giurisprudenziali e ribadiscono che il rapporto che si instaura tra il paziente e la struttura ha fonte nel contratto atipico a prestazioni corrispettive da cui sorgono a carico della struttura, oltre alle prestazioni meramente di tipo alberghiero, anche obblighi di messa a disposizione del personale medico e ausiliario e di tutte le attrezzature necessarie.

L’onere della prova e il nesso causale

In applicazione della disciplina sui rapporti contrattuali è il debitore, e quindi la struttura e il suo personale, che deve provare l’assenza dell’inadempimento o la presenza di un fattore ad essi non imputabile o l’assenza del nesso causale.
Sussiste il nesso causale quando tra il comportamento dei debitori e il pregiudizio subito dai pazienti quando attraverso un criterio probabilistico si possa ritenere che l’attività dei debitori abbia causato, o concorso a causare, il danno verificatosi, ovvero in caso di condotta omissiva che l’attività correttamente e prontamente svolta avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi.
La Corte di Cassazione ribadisce che la causa più probabile del contagio infettivo dell’uomo sia da individuarsi nelle condizioni igienico-sanitarie della struttura, in quanto anche nel giudizio d’appello la struttura non ha dimostrato di avere posto in essere i protocolli di igiene in ambiente ospedaliero.
Ma non solo. Quanto accaduto al danneggiato dimostra la presenza di un grave malfunzionamento organizzativo, una carenza strutturale, di sicurezza, di vigilanza e di custodia.

La personalizzazione del danno

L’appello incidentale proposto dal danneggiato viene dichiarato dalla Corte inammissibile e infondato laddove si lamenta che la personalizzazione del danno biologico nella misura del 5% non porta a un ristoro integrale del pregiudizio subito.
I Giudici osservano che la personalizzazione è consentita solo in presenza di circostanze eccezionali che rendano il danno più grave rispetto alle conseguenze dello stesso grado patite da persone della stessa fascia di età considerato che già il grado di invalidità permanente racchiude ed esprime la misura in cui il pregiudizio alla salute incide su tutti gli aspetti della vita.
Osservato ciò, viene ritenuta congrua la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal primo Giudice che ha incrementato, ovvero personalizzato, del 5% per il danno estetico e che tale personalizzazione rientra vieppiù nei parametri stabiliti dalle Tabelle milanesi.
L’appello incidentale viene ritenuto infondato anche in punto di liquidazione del danno patrimoniale.
La Corte riconosce corretta la liquidazione operata dal primo Giudice che ha utilizzato come parametro un importo corrispondente al triplo della pensione sociale. Inoltre il danneggiato non ha dimostrato di percepire all’epoca del sinistro un reddito superiore al triplo della pensione sociale.
L’appello principale e quello incidentale vengono integralmente respinti in quanto infondati e la Corte conferma integralmente la pronuncia di primo grado.

Avv. Emanuela Foligno

 
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