Per la Cassazione nell’attività di medicina di gruppo, promossa dal Ssn per realizzare più avanzate forme di presidio della salute pubblica, l’associarsi non è condizione sufficiente per essere soggetti all’imposta

La Corte di Cassazione negli ultimi mesi si è pronunciata più volte a chiarimento del pagamento dell’Irap da parte dei medici di famiglia con particolare riferimento all’attività di medicina di gruppo svolta da parte dei medici di medicina generale convenzionati con il Servizio Sanitario nazionale.

La Suprema Corte, a tal proposito, ha chiarito con la sentenza n. 7291 depositata il 13 aprile 2016 che la medicina di gruppo è un organismo promosso dal Ssn per realizzare più avanzate forme di presidio della salute pubblica. Gli studi medici convenzionati con il Ssn, quindi, non pagano l’Irap, in quanto non assimilabili alle associazioni senza personalità giuridica previste dall’articolo 5 del Tuir quali gli studi associati di avvocati o commercialisti che invece sono soggetti all’imposta. Se l’associazione è voluta dal Servizio sanitario pubblico, infatti, l’associarsi non è condizione sufficiente per essere soggetti all’Irap.

Inoltre, non è sufficiente per dover pagare l’Irap lo stipendiare infermieri o collaboratori: questi infatti, secondo quanto stabilito da un’altra sentenza dei giudici di merito, la n. 9451 del 10 maggio 2016, costituiscono lo standard “minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale” e avvalersi del loro apporto con funzioni di segreteria o “meramente esecutive”, anche non occasionalmente, non integra il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini del presupposto impositivo.

Nell’ambito dello standard minimo indispensabile rientra anche l’utilizzo di supporti tecnologici e strumentali comuni necessari a svolgere i compiti convenzionali. A tal proposito la Cassazione, con ordinanza 17392/16 ha affermato che una spesa consistente per un macchinario indispensabile per l’esercizio della professione non significa per il medico autonoma organizzazione. “Non lo è ogni qualvolta il capitale investito non sia fattore aggiuntivo o moltiplicativo del valore rappresentato dalla mera attività intellettuale del professionista, ma gli è indispensabile per il lavoro che svolge in convenzione”.

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