L’amianto, incorruttibile ed imperituro conosciuto fin dall’antichità quando veniva usato per scopi magici e rituali, è qualcosa che uccide e per questo è stato bandito da quaranta paesi (tutti i membri della Unione Europea e in Giappone tra gli altri) ed il suo uso è sottoposto a severissime limitazioni negli Stati Uniti. L’amianto uccide e la verità comincia a rimbombare nelle aule dei Tribunali, ma questa realtà è ancora avvolta dalla spessa nebbia del silenzio.

La Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione, nella sentenza in commento coglie l’occasione per ripercorrere la storia e la costruzione della tutela ordinamentale apprestata per le lavorazioni che comportino esposizione a polveri, per poi giungere a confermare la sentenza di merito attraverso lo strumento – tecnico processuale – della mancanza di prova.

In sintesi la conclusione della Corte è che la responsabilità datoriale per danni da amianto (nello specifico la morte di un lavoratore a seguito di mesotelioma pleurico) non si esaurisce una volta eliminata la variabile penale.

E’ noto infatti che – al di la degli usi magici che se ne potevano fare nell’antichità, fin dai primi anni del secolo scorso si era cominciato a prospettare una correlazione tra la sfilacciatura e l’aerodispersione dell’amianto e alcune gravissime forme tumorali, per quanto la correlazione possa dirsi scientificamente certa a partire dagli anni cinquanta.

Sul piano legislativo e giurisdizionale, per ciò che qui interessa, fin dal Regno d’Italia troviamo ricomprese nel testo di legge sul lavoro minorile la filatura e la tessitura dell’amianto, specificamente nell’elenco delle lavorazioni insalubri.

Dunque si è al cospetto di una vera e propria piaga storica e sociale per l’essere umano, tenendo anche presente che le fabbriche non sono generalmente costruite in luoghi isolati, con inevitabile coinvolgimento della popolazione civile, anche se rimangono gli operai ed i lavoratori quelli che ne hanno risentito maggiormente.

Al di la degli aspetti assicurativi ciò che nel caso di specie ha interessato la Corte, con un ragionamento ancorato a precedenti ormai più che consolidati è la responsabilità che deriva al datore di lavoro dalla violazione dell’obbligo di adottare tutte le cautele idonee a preservare l’incolumità fisica ed anche psichica del lavoratore.

Il collegio giudicante ha quindi dimostrato che la norma specifica, sulla cui pretesa assenza era fondato il ricorso, nella realtà esisteva già da molti anni ed in ogni caso si sarebbe potuta individuare residualmente nell’art. 2087 c.c. non a caso posta a chiusura del sistema di responsabilità extracontrattuale, attraverso la quale la collettività affida al datore di lavoro la tutela dei propri dipendenti, imponendogli degli obblighi anche di aggiornamento tecnologico, con funzione integrativa rispetto alle leggi speciali in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali.

Questo obbligo attualmente trova nuove radici nel concetto di cutting edge technology, vale a dire la necessità di usare tutta la tecnologia disponibile per quanto nuova, avanguardistica o costosa possa essere, per garantire comunque il massimo livello di protezione possibile.

Nella fattispecie oggetto di commento è incontrovertibile che la società datrice di lavoro non abbia assunto tutte le cautele che scienza e tecnica proponevano per evitare il danno ai propri lavoratori e non essendoci prova – necessariamente rigorosa del contrario invocare l’ignoranza come fattore escludente è controproducente, poiché si tratta di normative assolute poste a presidio e a tutela della salute a fini preventivi di stati patologici.

Le stesse argomentazioni della società ricorrente per affermare la propria irresponsabilità vale a dire che sia stata riconosciuta la configurabilità dell’elemento soggettivo della colpa, pur essendosi svolti i fatti oggetto di causa in un momento storico nel quale non era ancora nota la particolare insidiosità dell’amianto non hanno passato il vaglio dei giudici di legittimità che poggiandosi sull’excursus storico della “questione amianto” hanno confermato che l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza dello stato dell’arte tecnico scientifica è a tutti gli effetti uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa e non un’esimente della responsabilità del datore di lavoro.

Infatti al di la della obiettiva deviazione tra condotta esigibile in astratto e quanto concretamente osservato deve potersi stabilire un minimo di riferibilità psicologica all’agente/responsabile e tra condotta errata e danno.

In conclusione può affermarsi che il datore di lavoro chiamato oggi a rispondere sul piano risarcitorio dei danni provocati non può esimersi da responsabilità civile, perché è il soggetto che fruisce dei vantaggi e dei profitti del lavoro prestato in suo favore, e come tale deve ritenersi obbligato a sopportare anche i rischi che la prestazione lavorativa comporta per la salute del lavoratore e della sua famiglia (Cass. SC III 24.3.2016 n. 5893) anche in base, da ultimo, dei principi solidaristici e di difesa del contraente debole nei rapporti economici e sociali desumibili da una lettura sistematica degli artt. 2 e 3 Cost.

Avv. Silvia Assennato

Foro di Roma

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