Il tema della responsabilità medica è indubbiamente uno dei più analizzati all’interno della dottrina e della giurisprudenza, tant’è che i criteri di imputazione del fatto illecito, la distribuzione dell’onere probatorio, il nesso di causalità e la valutazione dell’osservanza di regole di condotta, hanno animato con incedere sensibilmente vivace il dibattito di illustri giuristi.
A soli tre anni, infatti, dall’entrata in vigore della legge Balduzzi, il legislatore è intervenuto nuovamente con il disegno di legge Gelli al fine di delineare una responsabilità medica, sia in ambito civile che penale, protesa a rinvenire un adeguato bilanciamento tra tutela della salute del paziente e tutela dei professionisti operanti in ambito sanitario, scoraggiando il ricorso alla medicina difensiva che, stante al rapporto della Commissione Parlamentare d’inchiesta, genera ogni anno al Servizio sanitario nazionale costi per circa 10 miliardi di euro.
Una delle principali novità normative è racchiusa nell’articolo 6 del disegno di legge, recante il titolo “responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, con il quale dopo l’art. 590 bis del codice penale è stato inserito l’art. 590 ter c.p. “responsabilità colposa per morte o lesioni personali” il quale prevede che l’esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della propria attività, cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde di omicidio colposo e di lesioni personali colpose solo in caso di colpa grave, esclusa, tuttavia quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge. Formulazione non molto rassicurante se si considera non solo la difficoltà di distinguere nel caso concreto i vari profili della colpa, ma anche e soprattutto se si tiene conto dell’inciso “salve le rilevanti specificità del caso concreto”.
Il problema che si pone all’interprete è di comprendere se la nuova fattispecie prevederà una limitazione di responsabilità solo in caso di rispetto delle linee guida oppure se generalizzerà il limite della colpa grave anche a prescindere dal rispetto delle linee guida, queste ultime generalmente considerate “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborato mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare i sanitari a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche. Norme elaborate dalla prassi e quindi non di diritto positivo ma di c.d. soft law, sovente accreditate dalla comunità scientifica, in ragione dell’efficacia riscontrata sul piano epidemiologico”.
Emerge prima face che la disposizione limitativa della responsabilità è applicabile esclusivamente nei casi in cui si discuta della perizia del sanitario, non estendendosi alle condotte professionali negligenti ed imprudenti, anche perché concettualmente da escludere che le linee guida possano in qualche modo prendere in considerazione comportamenti connotati da tali profili di colpa. Così la disposizione non potrebbe trovare applicazione se il paziente ha avuto una reazione avversa ad un farmaco, nonostante l’intolleranza risultasse in cartella, letta però velocemente dal medico prescrivente e quindi negligente e neanche nel caso in cui il fondamento della colpa del sanitario si individui in una imprudente manovra del sanitario durante l’inserimento della guida metallica di un catetere vascolare.
Ad una prima lettura della disposizione emerge che: un medico che è incorso in colpa grave, può essere esente da responsabilità se ha rispettato le linee guida, salvo che non sia stato in grado di rendersi conto delle rilevanti specificità del caso concreto, perché in questo caso è responsabile per colpa grave posto che la presenza di specificità del tutto peculiari avrebbero dovuto indurlo a discostarsi dalle pratiche standardizzate. Per la giurisprudenza dominante: il sanitario che si attiene a linee guida risponde solo per imperizia grave, che si configura quando questi non si doveva attenere a linee guida per le macroscopiche specificità del caso concreto, immediatamente riconoscibili da qualunque altro sanitario.
Secondo parte della dottrina il professionista che si trovasse ad applicare le linee guida, non rilevando una specificità che invece avrebbe dovuto rilevare si troverebbe in una posizione processuale più favorevole rispetto al professionista che più coscientemente dovesse ritenere di non attenersi alle linee guida avendo considerato le specificità del caso: nella prima ipotesi, infatti, l’onere della prova sarebbe in capo all’accusa, nella seconda ipotesi in capo all’operatore. L’applicazione rigorosa di questa norma rischierebbe di spingere il sanitario ad una pedissequa applicazione delle linee guida senza operare alcuna valutazione critica del caso concreto, preoccupazione che ha spinto la giurisprudenza ad affermare che l’utilizzo di tali linee come strumenti privilegiati di accertamento della responsabilità determina il rischio di un agire professionale burocratizzato, in quanto premiale per chi manifesta un’acritica adesione alle prassi e penalizzante per chi se ne discosta con pari dignità scientifica.
Non mancano, tuttavia, in dottrina coloro che ritengono che la disposizione mantiene intatta la contraddizione, già presente nella Balduzzi, tra condotta imperita e contestuale rispetto delle linee guida ancorché adeguate al caso concreto: si postula cioè che è alquanto curioso che il medico possa adeguarsi a regole cautelari positivizzate di riconosciuta validità, e ciò nondimeno essere in colpa, persino grave. Ci si chiede quale spazio concedere all’imperizia pur al cospetto della corretta applicazione delle linee guida in quanto adeguate al caso concreto se proprio le linee guida costituiscono il patrimonio della perizia medesima.
Ad avviso della giurisprudenza la contraddizione è solo apparente poiché le linee guida, offrendo istruzioni di massima, vanno sempre rapportate alle peculiari specificità di ciascun caso clinico. Esse hanno un valore probatorio indubbio ma non esaustivo poiché concorrono insieme ad altri parametri all’accertamento della condotta colposa ed operano, quindi, come direttive scientifiche la cui osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare errori gravi commessi nel processo di adeguamento del sapere codificato alle peculiarità contingenti.
L’esercente sanitario ha il dovere di valutare le specifiche esigenze terapeutiche del caso clinico muovendosi negli spazi lasciati liberi dalle linee guida e/o anche al di fuori di esse, se ciò è opportuno, alla luce anche della constatazione che tali direttive in alcuni casi possono essere controverse o non più rispondenti ai progressi scientifici, nelle more dell’intervento terapeutico. Il giudice, nel giudizio sulla colpa del medico, resta, quindi, libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbero evitato il fatto che si imputa al medico e cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida oppure una condotta diversa da quella descritta nel sapere burocratizzato.
Benché il giudizio sulla gravità della colpa non sia estraneo all’esperienza giuridica penalistica, essendo imposto dall’art.133 c.p., nessuna indicazione viene fornita sui criteri che debbono presiedere a tale delicata valutazione. E’ chiaro, peraltro, che tale valutazione non si fonda su un unico denominatore ma richiede al giudice una ponderazione comparativa di fattori differenti e a volte di segno contrario, secondo un criterio di prevalenza o equivalenza non diverso da quello che viene compiuto in tema di concorso di circostanze, ponderazione che, in relazione alla nuova normativa, tende ad allontanarsi dalle regole oggettive e standardizzate, che si assumono rispettate nella loro complessiva e astratta configurazione, per concentrarsi su criteri di valutazione che tengano conto oltre che delle conoscenze scientifiche anche e soprattutto delle peculiarità del caso concreto.
Al fine della verifica del grado della colpa e cioè per comprendere se il medico si è altamente discostato dallo standard di agire dell’agente modello si dovrà, infatti, porre attenzione alle peculiarità oggettive e soggettive del caso concreto. Così non potrà mancare di valutare la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di tipicità, atipicità della situazione data, l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati e sotto il profilo soggettivo non si potrà non tener conto delle specifiche condizioni dell’agente, cosicché, sulla base del principio secondo cui più tanto più è adeguato il soggetto al rispetto della regola, tanto maggiore deve ritenersi il grado della colpa, l’inosservanza della regola avrà maggiore disvalore per un insigne specialista che per un comune medico generico.
Sul presupposto, quindi, che il principio di legalità non si riduce al rispetto dei singoli precetti ma richiede un loro coordinamento e la contestuale conoscenza del fatto concreto da regolare e risolvere, anche la nuova disposizione si proietta all’interno di un’operazione ermeneutica che considera il precetto come il risultato di un’attività complessa che l’interprete deve compiere all’interno del sistema delle fonti, ripartito in diversi gradi e livelli, comprensivi anche della soft law, e ciò al fine di individuare la normativa più adeguata agli interessi ed ai valori in gioco.

Avv. Stefania Valente

(Foro di Catanzaro)

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