La responsabilità dei genitori, disciplinata dall’art. 2048 c.c. ha natura di responsabilità diretta per fatto proprio colpevole consistente nel non avere, con idoneo comportamento, impedito il fatto dannoso

La responsabilità dei genitori è fondata su di una duplice presunzione di colpa di natura specifica (cd culpa in vigilando e culpa in educando), la quale non consiste tanto nel non aver impedito il verificarsi del fatto ma in una condotta anteriore alla commissione dell’illecito, consistente nella violazione dei doveri inderogabili posti a carico dei genitori dall’art. 147 c.c. (obbligo di istruire, mantenere ed educare la prole) a mezzo di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti ed a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito. Va dunque dichiarata la responsabilità dei genitori del minore che abbia accusato ingiustamente di bullismo un ragazzo di poco più grande.

Un adolescente, all’epoca undicenne, per il tramite della madre, denunciava di essere stato vittima di atti di bullismo, di aver subito consistenti in lesioni, richieste di denaro (peraltro da lui soddisfatte), minacce anche con armi; compiute da 3 ragazzi nei bagni della scuola.

Veniva, così, istruito un procedimento penale dalla Procura dei Minori di Genova, per i reati di estorsione, rapina aggravata e lesioni personali. A seguito delle dichiarazioni rese dal minore (che aveva descritto fisicamente i 3 “bulli”), fu individuato, tra gli altri, un altro adolescente, autore dei fatti denunciati e all’epoca quattordicenne.

Terminate, le indagini, però il PM chiedeva l’archiviazione del caso, posto che  – a sua detta – il denunciante si sarebbe inventato tutto.

Di qui la decisione di rivolgersi al giudice civile, citando in giudizio i genitori del minore autore dei fatti contestati, al fine di vederli condannati al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti dalla vittima.

Il quadro normativo

Il dato normativo di riferimento è l’art. 2048, co. 1, c.c.

La giurisprudenza prevalente ritiene che la fattispecie di cui all’art. 2048 c.c. abbia natura di responsabilità diretta per fatto proprio colpevole, consistente nella specie nel non avere, con idoneo comportamento, impedito il fatto dannoso (Cass. 20322/05, Cass. 4481/01 e Cass. 9815/97).

Essa è fondata su di una duplice presunzione di colpa di natura specifica (ed culpa in vigilando e culpa in educando), la quale non consiste tanto nel non aver impedito il verificarsi del fatto ma in una condotta anteriore alla commissione dell’illecito, consistente nella violazione dei doveri inderogabili posti a loro carico dell’art. 147 c.c. (obbligo di istruire, mantenere ed educare la prole) a mezzo di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti ed a realizzare una personalità equilibrata consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito.

La prova liberatoria ex art. 2048 c.c. consiste nella dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto.

I genitori, per superare la presunzione di colpa prevista dall’art. 2048 c.c., debbono fornire non la prova legislativamente predeterminata di non aver potuto impedire il fatto (atteso che si tratta di prova negativa), ma quella positiva di aver impartito al figlio una buona educazione e di aver esercitato su di lui una vigilanza adeguata, il tutto in conformità alle condizioni sociali, familiari, all’età, al carattere e all’indole del minore. L’inadeguatezza dell’educazione impartita e della vigilanza esercitata su un minore, fondamento della responsabilità dei genitori per il fatto illecito dal suddetto commesso, può essere desunta, in mancanza di prova contraria, dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell’art. 147 cod. civ.(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di alcuna motivazione in ordine alla sussistenza della prova liberatoria, da apprezzarsi nei termini di cui all’enunciato principio di diritto, aveva escluso la responsabilità dei genitori per le lesioni cagionate dal proprio figlio ad altro minore, colpito alla bocca con una violenta testata nel corso di una partita di calcio, mentre il gioco era fermo e senza aver subito alcuna precedente aggressione da parte del danneggiato) (Cass. 26200/11).

In sostanza, la gravità della condotta del minore, è, di per sé, sintomo del mancato raggiungimento della prova liberatoria di cui all’ultimo comma della disposizione citata (sul punto, si vedano, inoltre, Cass. 7270/01; Cass. 10357/00; Cass. 5751/98, che ha escluso la prova testimoniale, richiesta dal genitore e tesa a dimostrare la buona e corretta educazione del figlio, sul presupposto che la presunzione di colpa configura una presunzione assoluta).

Il risarcimento del danno

Se questo è vero, è possibile allora identificare i danni risarcibili.

Parte attrice aveva chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non.

Tuttavia, come evidenziato dalla giurisprudenza più recente, si dovranno prendere in considerazione unicamente quei danni per i quali sussistano specifiche allegazioni e prove (Cass. 13328/15).

Il risarcimento del danno non patrimoniale è stato oggetto delle sentenze gemelle delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rese in data 11.11.2008 (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975).

Affrontando un annoso nodo interpretativo, la Suprema Corte ha chiarito che “il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate”.

In altre parole, non è possibile duplicare le voci risarcitorie ripartendo la nozione di danno non patrimoniale in sottocategorie quali il danno biologico, il danno morale soggettivo, il dannoso esistenziale, il danno alla vita di relazione cc. Infatti, “al danno biologico va riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva”.

Tali denominazioni, ancora in uso presso la giurisprudenza, hanno la valenza di mere sintesi descrittive di specifiche situazioni dannose tutte ricomprese nella generale categoria del danno non patrimoniale.

E’, pertanto, compito del giudice, nel singolo caso concreto, liquidare un’unica voce di danno non patrimoniale, individuata e ponderata in modo tale da ricomprendervi unitariamente tutti i pregiudizi risarcibili, purché oggetto di specifica allegazione e di idonei riscontri probatori forniti dall’interessato, tenendo altresì conto del limite imposto dall’art. 2059 c.c. costituzionalmente interpretato, il quale impone di considerare a fini risarcitori solo quei pregiudizi si traducano nella lesione di un interesse della persona costituzionalmente rilevante (con esclusione dei danni c.d. bagatellari), ovvero espressamente considerati da specifiche norme di legge primaria.

Quanto alle sofferenze patite in conseguenza dell’illecito, “cd danno morale”, questo continua ad essere risarcito e non è affatto scomparso come è stato frettolosamente sostenuto dopo le sentenze di San Martino.

Questo, infatti, consiste in un pregiudizio ad un valore costituzionale che va dunque risarcito.

In sostanza, lo stesso illecito produce la lesione sia del bene salute di cui all’art. 32 Cost. che dell’integrità morale di una persona ex art. 2 Cost.

Tali lesioni, quindi, rappresentano entrambe sottocategorie di un unico danno, convenzionalmente chiamato danno non patrimoniale, che costituisce la somma del vecchio danno morale e biologico.

La liquidazione del danno

L’unica distinzione tra danni dotata di autonomo rilievo è quella tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale.

La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere necessariamente equitativa, stante dell’impossibilità o estrema difficoltà di prova nel suo preciso ammontare (Cass. 12613/2010).

Nel risarcire il danno subito, il Giudice deve determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa”.

Le tabelle del Tribunale di Milano, alla luce dei principi sopra espressi, determinano la somma da liquidare avendo riguardo non solo al cd danno biologico in senso stretto (inteso quale mera lesione dell’integrità psicofisica della persona suscettibile di valutazione medico legale – cfr. artt. 138 e 139 D. lgs. 209/2005, indicata dal bareme medico legale), ma, altresì, alle sofferenze patite ed a tutti i pregiudizi di natura dinamico-relazionale subiti dal danneggiato ed ordinariamente connessi, secondo una prognosi di normalità, al grado delle lesioni riportate.

A questo punto, il Giudice può procedere a personalizzare la liquidazione del danno non patrimoniale. In particolare, “il giudice di merito deve: (-) liquidare il danno alla salute applicando un criterio standard ed uguale per tutti, che consenta di garantire la parità di trattamento a parità di danno; (-) variare adeguatamente, in più od in meno, il valore risultante dall’applicazione del criterio standard, al fine di adeguare il risarcimento alle specificità del caso concreto (c.d. “personalizzazione del risarcimento”). L’una e l’altra di tali operazioni vanno compiute senza automatismi risarcitori, juxta alligata et probata, e soprattutto sulla base di adeguata motivazione che spieghi – quali pregiudizi sono stati accertati; – con quali criteri sono stati monetizzati; – con quali criteri il risarcimento è stato personalizzato” (Cass. 23778/14).

A dirla tutta, il Tribunale investito della vicenda (Tribunale di Savona, sent. n. 79/2018) ha schiettamente affermato che da questa vicenda ne sono uscite due ulteriori vittime: da una parte il minore denunciato che si è visto additato a scuola come un potenziale “bullo”, dall’altra parte la madre, che ha vissuto, in quanto genitrice di un piccolo delinquente, il fallimento del proprio ruolo genitoriale.

Avv. Sabrina Caporale

 

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