La maggior parte dei trattamenti ortodontici avviene nel soggetto in crescita

Pur nella varietà degli indirizzi terapeutici esistenti, il trattamento ortodontico viene posto in atto dal curante dopo aver attentamente studiato il caso, formulato diagnosi ed obiettivi terapeutici e documentato lo stato iniziale. La raccolta della documentazione fotografica, radiografica e la realizzazione dei modelli in gesso, oltre a consentire la disamina del caso, è elemento fondamentale ai fini medico-legali, per poter dimostrare, in caso di conflitto o di contenzioso, le condizioni del paziente al momento della presa in carico. La raccolta del consenso alle cure, momento ormai divenuto fondamentale in ogni disciplina medica e branca odontoiatrica, nella fattispecie trattata assume ancor  più forte rilevanza. Si tratta della terapia da attuare su un minore, per il quale occorre concordanza negli intenti genitoriali (e talora non è poca cosa!) oltre che, ovviamente rispondenza da parte del minore stesso.
Proprio agli ortodontisti deve essere riconosciuto il merito di avere, per primi nel panorama odontoiatrico, dato vita ad un protocollo di documentazione e impostazione del caso clinico che solo successivamente è stato imitato dai professionisti delle altre branche. “Chi ben comincia è a metà dell’opera” recita un antico proverbio.
Quali i vantaggi e gli svantaggi da mettere sul piatto della bilancia nell’affrontare il trattamento ortodontico nel soggetto in crescita?
Da un lato, per il professionista, il vantaggio di essere il primo ad affrontare il caso, di poter impostare e gestire al meglio sia il dato tecnico che il rapporto di cura, con il giovane paziente e con i genitori, agendo su un osso di consistenza favorevole allo spostamento dentale.
Dall’altro, l’incognita dei fattori “sviluppo e crescita”, la compliance del paziente e della famiglia, risposte anomale individuali al trattamento o imprevisti, rappresentati per esempio, dal ritardo di eruzione dei permanenti o mancata discesa dei canini e di altri elementi.
Tali incognite possono rappresentare la condizione in grado di determinare un allungamento dei tempi di cura, talora anche in misura considerevole.
Ebbene, l’allungamento dei tempi di cura rappresenta un fattore che, se non adeguatamente analizzato e motivato con il paziente e con la famiglia, rischia di minare, se non addirittura di compromettere, il rapporto odontoiatra/paziente, facendo incrinare quella “fiducia” che rappresenta il cardine del rapporto di cura.
Il momento fondamentale per scongiurare il contenzioso in ortodonzia, al di là dei meri fattori tecnico-esecutivi, è, infatti, la comunicazione, che deve essere mantenuta chiara, comprensiva ed efficace, sia con il paziente che con la famiglia del minore, durante tutto l’iter terapeutico. Se ciò deve essere considerato di grande rilevanza in generale, lo sarà ancor di più nel caso in cui, per motivi diversi, i tempi di cura dovessero protrarsi oltre i periodi preventivati.
Talora, la somma di fattori negativi differenti, in mancanza di una adeguata informativa e di una eventuale riconsiderazione complessiva del caso, determina la sensazione, nel paziente e nella famiglia, che il curante “stia navigando a vista”, per usare una espressione marinara che vuole significare la mancanza di una rotta impostata da seguire, di un piano di cura, nel nostro caso, che abbia come scopo il raggiungimento di un determinato obiettivo. Questa è l’espressione che ha usato il papà di un ragazzo di 17 anni, in cura ortodontica da 4 anni a fronte di una previsione di 2 anni di cura, dopo che, per più di un anno e mezzo il curante, senza affrontare compiutamente la disamina del caso con il minore e la sua famiglia, continuava a portare avanti il trattamento senza un apparente concreto obiettivo.
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Ciò che più di ogni altro problema (diastemi diffusi) ha impensierito il ragazzo e la famiglia è la perdita di attacco connettivale dell’incisivo centrale inferiore di sinistra, lesione che il curante tendeva a minimizzare.
Recatosi a visita presso altro professionista, venivano evidenziate le negatività nella gestione delle cure effettuate, l’importanza di trattare la lesione dell’incisivo e si poneva il dubbio circa un’eccessiva vestibolarizzazione dentale complessiva con rischio di perdita ossea generalizzata.
Con chiarezza veniva indicata la necessità di rivedere complessivamente il piano di cura e sottoporre il paziente ad un nuovo trattamento della durata di circa un anno e mezzo, che a questo punto troverà un paziente stressato e adulto.
Dalla ricostruzione della storia clinica emergeva la mancanza di esami radiografici, di studi cefalometrici, di documentazione fotografica del caso iniziale, di consensi alle cure: tali mancanze venivano confermate dalla assenza di produzione documentale da parte del curante al momento della Consulenza d’Ufficio per ricorso giudiziale.
Difficile convincere il ragazzo e la sua famiglia che la stragrande maggioranza degli ortodontisti lavora con estrema coscienza e passione, strutturando la complessiva gestione di ogni caso clinico con scrupolo e accuratezza. Purtroppo, rimanendo sul gergo marinaro che ha fatto da spunto a questo scritto, “chi rovina il porto è il marinaio” e la condotta del singolo si ripercuote negativamente su tutta la categoria, sia pure ingiustamente.

Marco Brady Bucci      

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