Con l’avvento del DSM-5 l’autismo ha subito una vera e propria riconfigurazione, il testo sacro della comunità scientifica, Il DSM, manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali, ha dato una nuova definizione dell’autismo.

La commissione che lavora alla stesura del manuale ha giustificato il nuovo “look” dell’autismo con dati scientifici ed empirici, tuttavia sembrerebbe che ci sarà una perdita della percentuale delle diagnosi applicando i nuovi criteri diagnostici. Prima di addentrarci nelle conseguenze, però, analizziamo la nuova definizione. Il DSM-5 Spazzando via i diversi tipi di autismo che facevano parte dei disturbi pervasivi dello sviluppo all’interno del manuale precedente DSM-IV, (che comprendeva il disturbo autistico; il disturbo di Asperger; il disturbo disintegrativo della fanciullezza; il disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato e la sindrome di Rett), ha creato un’unica categoria diagnostica dal nome “disturbi dello spettro autistico”.

Quali sono le differenze tra le due classificazioni diagnostiche? Eccone alcune: La definizione diagnostica di autismo nel DSM-IV era caratterizzata da una triade di sintomi: “menomazione della reciprocità sociale”, “menomazione del linguaggio/comunicazione” e “repertori ristretti e ripetitivi di interessi/attività”, mentre nel DSM-5, le categorie di sintomi sono ridotte a due: i “deficit della comunicazione sociale” (che comprendono le difficoltà sociali e di comunicazione) e i “comportamenti ristretti e ripetitivi”. Il DSM-5 precisa che “I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia, ma possono non manifestarsi appieno finché le aspettative sociali non superano le capacità limitate”, ma non per forza entro i 36 mesi indicati dal DSM-IV. Se il soggetto presenta sintomi aggiuntivi sufficienti a rientrare nei criteri diagnostici di un altro disturbo, secondo il DSM-5, è possibile assegnare una doppia diagnosi (per esempio, ASD + ADHD [disordini dello spettro autistico + deficit di attenzione e iperattività). Grande attenzione è stata rivolta dagli esperti all’introduzione nel DSM-5 di una nuova etichetta diagnostica nella categoria delle menomazioni del linguaggio (il “disturbo della comunicazione sociale”), le cui caratteristiche diagnostiche si sovrappongono parzialmente con i disturbi dello spettro autistico, poiché la diagnosi di disturbo della comunicazione sociale richiede la presenza di una «menomazione del linguaggio pragmatico” e una menomazione “nell’uso sociale della comunicazione verbale e non-verbale”. Tuttavia chiunque presenti interessi rigidi e ripetitivi rientra nello spettro autistico e non nel disturbo della comunicazione sociale.

Conseguenze
La riconfigurazione dell’autismo non è solo una questione teorica, anzi, i suoi effetti si vedono nella “pratica”: secondo alcuni esperti, infatti, i nuovi criteri sono troppo ristretti e comportano una perdita di diagnosi. Un certo numero di studi sembra sostenere questo timore: McPartland e colleghi (2012) hanno riscontrato che usando i criteri diagnostici del DSM-5 si perde il 40% degli individui che rispondevano ai criteri del DSM-IV. Altri studi hanno trovato poi che usando i criteri del DSM-5 uscirebbe dalla diagnosi di disturbo dello spettro autistico una percentuale minore di casi, ma pur sempre significativa: del 32% in Worley & Matson (2012); 12% in Frazier et al. (2012); 9% in Huerta et al. (2012); 7% in Mazefsky et al. (2013); 37% in Taheri & Perry (2012); 22% in Wilson et al. (2013); 23% in Gibbs et al. (2012).

Il nuovo “look” dato all’autismo oltreoceano, quindi, ha un impatto pratico sull’intercettazione dei casi di autismo, sulla loro prevalenza e trattamento ed una domanda sorge spontanea: quali saranno gli interventi per quei bambini che con il DSM-IV rientravano nell’autismo e con il DSM-5 non più?

Dr.ssa Ferrara Rosaria
(psicologa in Roma)

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