Non rileva ai fini della reintegra sul lavoro del dipendente illegittimamente licenziato la circostanza che quest’ultimo abbia prestato attività lavorativa presso terzi

La vicenda

Nel giugno 2016, il Tribunale di Napoli rigettava l’opposizione proposta, ai sensi della L. Fall., art. 98, da un lavoratore contro lo stato passivo della società presso la quale era impiegato, dal momento che era stato escluso il suo credito (insinuato in via privilegiata ai sensi dell’art. 2751 bis c.c., n. 1), di Euro 144.062,44 per mancato pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla data di dichiarazione di fallimento; e ciò, sulla base di una precedente sentenza del Tribunale di Napoli, passata in giudicato, che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società datrice di lavoro, poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria.

A motivo della propria decisione, il Tribunale partenopeo aveva posto la mancata la prova da parte del lavoratore, dell’offerta delle proprie energie lavorative alla società datrice per esserne riassunto.

Ma i giudici della Cassazione hanno chiarito che “non sussiste alcuna necessità di una messa in mora in tal senso da parte del lavoratore” – a differenza di quanto sostenuto dal giudice di primo grado -, posto che “non può essere assimilata l’ipotesi della L. n. 300 del 1970, art. 18, a quella di nullità del termine apposto al contratto a tempo determinato, con la sua conversione a tempo indeterminato (Cass. 13 aprile 2007, n. 8903; Cass. 27 marzo 2008; Cass. 7 settembre 2012, n. 14996), per la natura ricognitiva della dichiarazione di nullità” (Cass. 20 novembre 2009, n. 23756).

Quando invece, il lavoratore impugni stragiudizialmente il licenziamento illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione manifestata con l’intimazione del licenziamento, egli già con tale agire compie l’offerta della sua prestazione lavorativa richiedendo il ripristino del rapporto.

L’onere della prova in capo al datore di lavoro

Spetta piuttosto al datore di lavoro, per l’effettivo ripristino del rapporto e fermo restando il diritto al risarcimento del danno liquidato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, (nel testo anteriore alla riforma operata con L. n. 92 del 2012), l’onere di invitare il lavoratore alla ripresa del servizio (con una comunicazione, pure in forma non solenne, ma in modo concreto e specifico: Cass. 29 luglio 1998, n. 7448; Cass. 27 novembre 2013, n. 26519); con decorrenza da tale momento del termine di trenta giorni per il lavoratore medesimo di riprendere il lavoro.

Né, al riguardo, rileva la circostanza che il lavoratore nelle more, abbia prestato la propria opera in favore di altri soggetti”.

La circostanza della nuova occupazione del lavoratore nelle more – chiariscono gli Ermellini, non è significativa di una sua carenza d’interesse al ripristino dell’originario vincolo (Cass. 20 dicembre 1989, n. 5743), rilevando semmai sotto il profilo dell’aliunde perceptum (Cass. 17 febbraio 2010, n. 3682).

La redazione giuridica

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