Era stato licenziato per aver indebitamente fruito dei permessi concessi dalla società datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 33 della L. n. 14/1992

I permessi gli erano stati riconosciuti perché potesse assistere il padre in condizioni di handicap. Ma in realtà, in base ad accertamenti, successivamente, confermati in giudizio, per ben sei volte, il dipendente aveva utilizzato le ore di permesso per finalità del tutto estranee all’assistenza del congiunto.
Cosicché il licenziamento veniva confermato in entrambi i giudizi di merito.
In particolare, la Corte d’appello di Roma, aveva ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva in ragione della lesione della buona fede e del forte disvalore sociale della condotta posta in essere.

E tale argomento, è stato confermato anche nel successivo giudizio di Cassazione.

Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, (Cass. n. 17968 del 2016; n. 9217 del 2016; n. 8784 del 2015) il permesso è riconosciuto al lavoratore, ai sensi dell’art. 33, L. n. 104 del 199, in ragione dell’assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la “ratio” della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza.
Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari.
Difatti, in base alla ratio dell’art. 33, comma 3, L. n. 104 del 1992, che attribuisce al “lavoratore dipendente … che assiste persona con handicap in situazione di gravità…” il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è necessario che l’assenza dal lavoro si ponga in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile; questa può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito” (cfr. Cass. Ord. n. 23891 del 2018).
Al contrario integra un abuso del diritto in quanto viola l’affidamento riposto nel dipendente da parte del datore di lavoro e dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, qualsiasi indebita percezione dell’indennità, fuori cioè dalle finalità previste.

La decisione della Cassazione

Ebbene, nel caso in esame, la corte d’appello aveva correttamente addossato al datore di lavoro l’onere di dimostrare l’assenza di nesso causale tra la fruizione dei permessi e l’assistenza al familiare disabile; e aveva, altresì, ritenuto assolto tale onere avendo la società dimostrato come, per ben sei volte, il familiare disabile dell’attuale ricorrente si trovasse, in coincidenza con la durata dei permessi, impegnato in attività lavorativa, senza che, peraltro, il lavoratore avesse dedotto “quale attività avrebbe posto in essere in favore del padre durante il periodo di durata dei permessi in questione”.
Pertanto, i giudici della Cassazione hanno confermato la decisione impugnata osservando che l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito in ordine al giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso, era i linea con i principi di diritto sopra citati: la condotta del lavoratore dipendente aveva comportato grave violazione del principio di buona fede, per avere ingiustamente privato il datore della prestazione, per finalità diverse dal diritto di assistenza al familiare disabile, e per il disvalore sociale di tale condotta rispetto all’importanza dei beni sottostanti al riconoscimento del diritto ai permessi di cui al citato art. 33, L. n. 104 del 1992.
Il ricorso è stato perciò, respinto con conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese del giudizio.

La redazione giuridica

 
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