La Corte di Cassazione ha affrontato il tema della inammissibilità dell’ atto di appello in relazione all’interpretazione dell’art. 342 del c.p.c.

In data 16.11.17, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno pronunciato una sentenza che affronta il tema della interpretazione dell’art. 342 del c.p.c. e, in particolare, della parte in cui la prefata norma impone che il corpo dell’atto introduttivo dell’ atto di appello deve contenere, a pena di inammissibilità l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste nonché l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
In proposito, nell’ambito della giurisprudenza di merito, si sono sovrapposte negli ultimi anni correnti interpretative diverse, alcune più, altre meno rigorose. In particolare, secondo un filone di pensiero, l’atto di appello – onde non patire l’effetto preclusivo costituito dalle “tagliole” di cui all’art. 342 c.p.c. – dovrebbe contenere (e quindi offrire all’attenzione del giudicante in secondo grado) un articolato “progetto risolutivo” della contesa che si proponga come una ragionata alternativa rispetto all’iter logico seguito dal giudice di prime cure.
Secondo un altro orientamento, l’atto introduttivo dell’appello deve contenere necessariamente due parti: una “volitiva” e una ”argomentativa” e quest’ultima deve essere idonea a contrastare le ragioni addotte dal giudice la cui pronuncia viene impugnata.
Ebbene, le Sezioni Unite sono intervenute per escludere quell’interpretazione dell’art. 342 secondo cui si dovrebbe gravare, addirittura, la parte appellante di un onere “diabolico”: quello di mettere nero su bianco una vera e propria sentenza alternativa rispetto alla pronuncia di primo grado criticata e impugnata. Non c’è dubbio che su parte appellante incomba l’obbligo di illuminare le zone d’ombra e le lacunose o zoppicanti affermazioni del giudice a quo: solo in questo modo, il soggetto che accede alla tutela di seconda istanza, metterà in condizioni il giudice ad quem di rendersi conto di quali siano i punti deboli (in quanto tali, censurabili e/o correggibili e/o sostituibili) del verdetto di primo grado. Questo approccio non deve, però, spingersi fino a una deriva ermeneutica estremista consistente nell’imporre all’appellante l’impiego di particolari formule rituali o persino vincolanti al fine dell’ammissibilità stessa dell’impugnazione.
In buona sostanza, non sono patrocinabili quelle “letture” dell’art. 342 che finiscono per tramutare il giudizio d’appello (che è e che deve restare un giudizio di merito) in una sorta di clone del ricorso per Cassazione. Ecco come la massima della sentenza in commento compendia il senso dell’importante arresto giurisprudenziale: “Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. 22/06/2012 n. 83 art. 54, convertito con modifiche dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’ atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”.
 
 
 

Avv. Francesco Carraro

(Foro di Padova)

 
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