La Suprema Corte con l’ordinanza n. 16801/2018 ripercorre gli ultimi indirizzi giurisprudenziali in tema di lite temeraria chiarendo quali siano i casi di abuso dell’impugnazione

La funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria.

Gli Ermellini hanno recentemente riesaminato la questione relativa alla funzione sanzionatoria della condanna per lite temeraria prevista dall’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.., con riferimento sia alla necessità di contenere il fenomeno dell’abuso del processo che alla evoluzione della fattispecie dei danni punitivi che è stata progressivamente introdotta nel nostro ordinamento.

Una recente pronuncia della Suprema Corte, la n. 27623 del 2017, ha affermato che “la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta al contenimento dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente e cioè nell’evidenza di non poter vantare alcuna plausibile ragione”.

Questa decisione, in verità, è stata preceduta da un altro fondamentale arresto inteso a valorizzare proprio la sanzione prevista dalla norma, e che ritiene che “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano, l’istituto di origine statunitense dei “risarcimenti punitivi”.

Con riferimento a tanto la Cassazione ribadisce che ai fini della condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c. può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione:
1) basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza
2) contenente una mera richiesta complessiva di rivalutazione nel merito della controversia
3) fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360, n.5., c.p.c., ove invece sia applicabile ratione temporis, l’ultimo comma dell’art. 348 ter c.p.c. che ne esclude l’invocabilità.

In queste ipotesi, il ricorso per cassazione integra un ingiustificato sviamento del sistema giurisdizionale, in quanto non è finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, bensì solo ad aumentare il volume del contenzioso e, di conseguenza, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buopn andamento della giurisdizione.

Qual è l’obiettivo della Corte?

Nel caso de quo gli Ermellini ritengono le censure contenute nel ricorso erronee e non più compatibili con un quadro ordinamentale che, da un lato, deve universalmente garantire l’accesso alla giustizia e alla tutela dei diritti, in base da quanto disposto dall’art. 6 della CEDU e, dall’altro, deve tener conto del principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo (cfr. art. 111 Cost.) e dalla necessità di creare strumenti dissuasivi rispetto ad azioni con chiaro intento dilatorio e defatigatorio.

La prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

Secondo la Corte si deve valorizzare la sanzionabilità dell’abuso dello strumento giudiziario (cfr. Cass., n. 10177/2015), proprio per evitare la dispersione delle risorse della giurisdizione (cfr. Cass., SSUU, n. 12310/2015 in motivazione) e consentire l’accesso alla tutela giudiziaria solo di quei soggetti meritevoli e dei diritti violati, per il quale, nella giustizia civile, il primo filtro valutativo è affidato alla prudenza del ceto forense coniugata con il principio di responsabilità delle parti.

Il processo si è concluso con la condanna, da parte della Corte, del ricorrente, d’ufficio, al pagamento in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata in €. 4.000,00, pari, all’incirca, in termini di proporzionalità, alla metà del compenso liquidato.

Avv. Maria Teresa De Luca

 

Leggi anche:

FORO DI COMPETENZA E SUA DEROGABILITÀ: UN APPROFONDIMENTO

 

 

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui