Segregava i bambini più irrequieti in una stanza poco illuminata, tirava loro schiaffi, li prendeva per le orecchie e i capelli, li apostrofava in malo modo, gli strappava i disegni o li allontanava dagli spazi di condivisione comune per lasciarli da soli in bagno: la maestra è stata condannata in via definitiva

La vicenda

In primo grado era stata condannata alla pena di due anni e otto mesi di reclusione, oltre al risarcimento dei danni alle persone offese. Gli episodi si verificavano (almeno stando a quanto emerso nel processo) tra l’ottobre del 2015 e il giugno del 2016. Ma la maestra “di scuola di infanzia con trent’anni di esperienza”, si dichiarava estranea ai fatti.

La decisione di condanna veniva confermata anche in appello. I giudici della corte territoriale di Napoli avevano ritenuto integrato il reato di maltrattamenti in considerazione della reiterazione delle condotte violente perpetrate ai danni degli alunni, tutti minorenni, del carattere sistematico del ricorso alla violenza fisica e morale non suscettibile di essere inquadrata in alcun metodo educativo, scolastico o di insegnamento e, tenuto conto anche della tenera età dei bambini maltrattati.

Contro la pronuncia emessa dai giudici dell’appello la donna ricorreva per Cassazione.

Montessori”, “time out”, “sedia del pensiero“, queste le parole chiave che la difesa adottava in giudizio.

Ebbene in giudizio, l’insegnante rimarcava il suo essere una maestra “di vecchio stampo”, aveva trent’anni di esperienza e perciò proveniva da una impostazione educativa legata ad un’idea di pedagogia meno sensibile alle nuove e più recenti teorie d’insegnamento.

Più precisamente, secondo la difesa, il sistema educativo seguito dalla propria assistita, mutuava dalla teorica della Montessori, la metodica denominata del “time out” attraverso il ricorso alla cd. “sedia del pensiero”: l’imputata invitava il bambino ad accomodarsi su una sediolina posta vicino a lei in modo che potesse riflettere sulla sua “marachella” e quando aveva compreso il suo errore poteva tornare a giocare con gli altri bambini.

Si tratta di un metodo – spiega il difensore – bastato sull’idea che per sedare l’aggressività dei bambini, la punizione, inflitta con modalità mai violente, rappresenti uno strumento educativo, utile per far comprendere al bambino il suo errore.

Ma in realtà secondo i giudici della Corte il tentativo della difesa è stato solo quello di ricostruire i fatti, limitandosi a ridimensionare le violenze fisiche solamente a qualche “leggero schiaffetto assolutamente di lieve entità”; quando in realtà in giudizio era emerso tutt’altro.

Non soltanto. Sebbene le intercettazioni audio-video non avessero prodotto video di alta qualità, nel corso del giudizio era stato tuttavia possibile accertare l’esistenza di una cd. “stanza del telefono”. Si trattava di una camera (poco illuminata) utilizzata per segregare i bambini più irrequieti. Ed inoltre le dichiarazioni testimoniali confermano la circostanza che la stessa facesse uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti e insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi: schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e di capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistite nell’apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare loro i disegni, nel sottrarre loro l’acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione comune per lasciarli da soli in bagno o in altro luogo.

Altro che metodo “Montessori” per i giudici della Cassazione si trattava di vere e proprie violenze.

Quanto al profilo giuridico tali condotte sono inquadrabili nel reato di maltrattamenti in famiglia e non anche in quello di abuso dei mezzi di correzione.

E, sono gli stessi giudici della Cassazione a fornirne la distinzione, ribadendo che nella prima fattispecie rientrano tutti gli atti di violenza fisica e morale, reiterati, anche se commessi con l’intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l’agente è portatore.

La redazione giuridica

 

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