L’ospedale non deve risarcire il danno per malattie contratte sul lavoro se prova di aver assicurato una corretta profilassi

L’aver contratto malattie sul luogo del lavoro non necessariamente implica la responsabilità del datore di lavoro, perché la patologia può essere anche conseguenza della qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o può essere insorta per una causa non addebitabile al datore, per avere quest’ultimo adottato le misure imposte dal legislatore o suggerite dalla tecnica e dalle regole di ordinaria prudenza.

Il principio è stato di recente affermato dai giudici della Sezione Lavoro della Cassazione (sentenza n. 31873/2018).

La vicenda

Il caso è quello di una tirocinante infermiera che, nel corso del suddetto tirocinio svolto presso il reparto di tisiologia contraeva una malattia. Aveva pertanto, proposto azione di risarcimento nei confronti dell’ente ospedaliero.

In primo grado, i giudici avevano respinto tale domanda posto che la ricorrente, era allieva della scuola per infermieri professionali e, aveva frequentato il reparto in qualità di tirocinante; sicché non sussisteva fra le parti alcun rapporto contrattuale e la responsabilità dell’azienda non poteva essere fondata sull’art. 2087 cod. civ., applicabile al solo lavoro subordinato.

In secondo grado, i giudici dell’appello, ugualmente, respingevano la domanda ma con diversa motivazione.

Anzitutto, chiarivano che il tirocinio anzidetto si basa su di un rapporto contrattuale trilaterale fra il soggetto promotore, il tirocinante e l’ente ospitante, che è tenuto a salvaguardare la sicurezza e la salute del tirocinante e risponde dell’eventuale inadempimento a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ.;

Ma detta responsabilità, prima che in diritto, andava respinta nel merito posto che l’ospedale aveva ampiamente dimostrato di aver sottoposto la tirocinante a vaccinazione che, come avviene nella quasi totalità dei casi, è sufficiente ad impedire qualsiasi contagio; e in ogni caso, l’ente non è tenuto a garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro, impossibile per la presenza di soggetti malati, bensì solo ad eseguire la profilassi idonea a scongiurare il pericolo di contagio.

Il ricorso in Cassazione

I giudici della Sezione Lavoro senza alcuna difficoltà, confermavano l’impianto motivazionale della sentenza impugnata; senza tuttavia, risparmiarsi dal fornire alcune precisazioni in materia.

L’obbligo di sicurezza che grava sull’imprenditore e sulle amministrazioni pubbliche – affermano –  è assunto non solo nei confronti dei lavoratori subordinati ma anche rispetto ad altre categorie di soggetti che, a vario titolo, si vengono a porre in relazione con i luoghi di lavoro.

La normativa antinfortunistica, infatti, tutela chiunque “svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione” (art. 2, lett. a) d.lgs. n. 81/2008 che, sebbene non applicabile alla fattispecie ratione temporis, riprende la definizione già contenuta nell’art. 3 del d.P.R. n. 547/1955 e nell’art. 3 del d.P.R. n. 303/1956);

Ciò vuol dire che si applicano anche ai rapporti (contrattuali) di tirocinio i principi, consolidati nella giurisprudenza di legittimità che regolano la responsabilità ex artt. 1218 e 2087 cod. civ., secondo cui l’inadempimento dell’obbligo di tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore è fonte di responsabilità contrattuale e risarcitoria, che sorge qualora la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali e tecniche (cfr. fra le tante Cass. n. 749/2018; Cass. n. 15082/2014; Cass. n. 8855/2013).

La richiamata responsabilità non ha, però, natura oggettiva perché, sebbene la colpa si presuma ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., in capo al datore di lavoro, quest’ultimo può, sempre superarla con prove a suo discarico e, in ogni caso, gli si può addebitare qualsiasi evento lesivo della salute del dipendente; ma solo quello che sia etiologicamente collegato alla regola cautelare violata, regola che deve essere specificamente volta a scongiurare il rischio di verificazione dell’evento realizzatosi (Cass. n. 749/2018).

Detto in altri termini, qualora il dipendente contragga una malattia mentre è in servizio, essa non implica necessariamente la responsabilità del datore di lavoro, se si tratta di attività per loro stessa natura intrinsecamente usuranti o se la patologia sia insorta comunque per una causa non addebitabile al datore, ad esempio, quando quest’ultimo aveva adottato tutte le misure imposte dal legislatore o suggerite dalla tecnica e dalle regole di ordinaria prudenza.

E così è stato nella vicenda in esame, ove l’ospedale convenuto aveva provato di aver adottato nei confronti della tirocinante tutte le misure di profilassi necessarie, quali la somministrazione del vaccino.

Ne discende che l’evento non poteva essere addebitato a colpa della struttura ospedaliera perché, da un lato, non poteva essere garantita l’assoluta salubrità dell’ambiente di lavoro, in considerazione dell’ineliminabile presenza nel reparto di soggetti malati, dall’altro la vaccinazione, nella normalità dei casi, impedisce il contagio e la resistenza al vaccino, seppure possibile, non poteva essere ascritta al datore.

 

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