È stato assolto dall’accusa di maltrattamenti in famiglia il direttore generale di una società multi servizi del Comune di Terni, non ricorrendone gli estremi di reato

La Cassazione (sentenza n. 28251/2019) ha chiarito che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare.

La vicenda

Nel 2016 la Corte di appello di Perugia, in riforma della pronuncia di condanna emessa dal Tribunale di Terni, assolveva l’imputato, un direttore generale di una società multi servizi municipale dal reato di maltrattamenti in famiglia.

L’accusa era quella di aver maltrattato un ingegnere, nonché dirigente del settore ambiente della predetta società, fino al settembre del 2008.

Mobbing o maltrattamenti in famiglia?

Avverso tale sentenza quest’ultimo ha presentato ricorso per Cassazione denunciandone tra gli altri motivi, la contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale erroneamente assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia, benché le carte del processo avessero provato che le relazioni esistenti tra il direttore generale e la ristretta cerchia dei dirigenti che con lui collaboravano, avessero acquisito caratteristiche tali da rendere quel gruppo parificabile ad una famiglia e egli fosse trattato come un minore.

Ma il motivo non è stato accolto.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (cosiddetto “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (così, da ultimo, Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018).

A tale regula iuris la Corte di appello di Perugia si era correttamente uniformata, “spiegando come l’applicazione nel caso di specie della contestata norma incriminatrice fosse preclusa dall’assenza di quelle caratteristiche di stabile affidamento e reciproca solidarietà che qualificano la famiglia e gli altri gruppi in cui si realizza, con canoni analoghi, una forma di stabile convivenza tra i soggetti interessati: le condotte oggetto di addebito erano state poste in essere dal direttore generale di una grande azienda municipalizzata (addetta, tra l’altro, alla raccolta e alla termovalorizzazione dei rifiuti urbani, alla distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica in un capoluogo di provincia), che constava di centinaia dipendenti pure sindacalizzati, nei riguardi specifici non di un lavoratore subordinato con compiti meramente esecutivi bensì di un dirigente amministrativo con la qualifica di ingegnere, posto a capo del più importante settore operativo di quella società di capitali; dunque di un soggetto che certamente era stato vittima di condotte vessatorie e talvolta ingiuriose da parte del suo superiore, ma che non aveva affatto instaurato, al pari degli altri dirigenti addetti agli ulteriori settori di attività aziendale, con il direttore generale una comunanza di vita assimilabile a quella che caratterizza la vita di una famiglia, nella quale le relazioni intense e abituali dei suoi componenti si accompagnano ad una fiducia riposta dal soggetto più vulnerabile nei riguardi di altro posto in posizione di preminenza”.

Sotto questo profilo doveva, pertanto, escludersi che la Corte territoriale avesse fatto erronea applicazione della norma codicistica richiamata.

Il ricorso è stato pertanto, rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

La redazione giuridica

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