Nelle professioni con abilitazione, per la configurazione del reato, basta un atto professionale anche in assenza di compenso: il caso di un medico veterinario 

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la responsabilità penale di alcuni soggetti per il reato di abusivo esercizio della professione di medico veterinario, la Corte di Cassazione (sentenza 31 gennaio 2018, n. 4562) – nel rigettare la tesi secondo cui, atteso il carattere meramente volontario e senza retribuzione dell’attività svolta, non poteva ritenersi configurabile il reato in questione – ha invece ribadito che il reato previsto dall’art. 348 c.p. che recita: chiunque abusivamente esercita una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da centotre euro a cinquecentosedici euro.

Il reato ha dunque natura istantanea (ovvero solo eventualmente abituale), sicché la sua sussistenza non esige un’attività continuativa od organizzata, ma si perfeziona con il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione abusivamente esercitata.

È pertanto sufficiente, per integrare il requisito dell’abusività, che la professione sia esercitata in mancanza dei requisiti richiesti dalla legge, come ad esempio il mancato conseguimento del titolo di studio o il mancato superamento dell’esame di Stato per ottenere l’abilitazione all’esercizio della professione. Integra il reato anche la mancata iscrizione presso il corrispondente albo.

Le motivazioni della sentenza in commento risulteranno di più immediata comprensione se si inquadra correttamente la professione del veterinario. Quest’ultima rientra tra le sanitarie in senso lato e risponde ad un proprio specifico codice etico e ad interessi di ordine pubblicistico, anche per quanto riguarda gli animali da compagnia.

L’animale occupa infatti un posto determinato a fianco dell’umano, ed ha per principio diritto all’integrità della sua esistenza, della sua salute e del suo benessere. Il principio di rispetto della vita e la responsabilità verso l’animale impongono infatti la sua protezione.

Tutte queste norme, di ordine sia etico che giuridico partono dal presupposto che gli animali non sono cose, ma esseri viventi dotati di sensibilità circostanza che impone al professionista una particolare e specifica responsabilità nei confronti dell’animale stesso cosi come del detentore e dell’opinione pubblica.

La crescente rilevanza sociale degli animali, si riflette anche sulla previsione di specifiche norme che hanno modificato ed integrato il codice penale, con l’introduzione del titolo IX bis, rubricato dei delitti contro il sentimento per gli animali. Infatti, l’uccisione, il maltrattamento, il combattimento e l’abbandono sono stati riconosciuti come reati con legge 20.7.2004 n. 189 e sono quindi perseguibili penalmente con pene variabili sia detentive che pecuniarie.

Sulla stessa scia si è poi inserita la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia, ratificata e resa esecutiva nel nostro ordinamento con legge 4.11.2010 n. 201.

Un excursus anche rapido delle norme penali in materia consente di evidenziare come una delle scriminanti principali, comuni a tutte le fattispecie si riscontra nella necessità, concetto generale che però in questo ambito non corrisponde in pieno alla previsione dell’art. 54 c.p. pur comprendendolo.

Proprio sul concetto di necessità fanno leva i giudici di legittimità nel decidere la fattispecie concreta giunta alla loro attenzione.

L’istruttoria svolta nei gradi di merito e confermata come valida dalla Cassazione, ha consentito di far emergere l’avvenuta soppressione “senza necessità” di decine e decine di animali: dalla indicazione, sui cartellini identificativi degli animali soppressi a seguito di “eutanasia ufficiale”, di cause non riconducibili tra le legittime ipotesi di soppressione per ragioni veterinarie, all’assenza di patologie fisiche negli animali soppressi, fino al mancato rispetto degli obblighi certificativi. Senza contare, poi, che i documenti di trasporto delle carcasse di animali avviati allo smaltimento riportavano un peso complessivo di gran lunga superiore al numero degli animali morti emergente dai registri ufficiali e che, presso il canile, erano state rinvenute dosi di farmaci letali in quantità abnormi rispetto alle esigenze della struttura, ed essendo stato posta in luce – a mente della sentenza in commento una particolare intensità del dolo, (aggravata) dalla futilità dei motivi sottesi alle condotte accertate.

Si consideri che il principio etico fondante della professione qui in discussione è quello per cui nell’esercizio della professione sia assicurata la miglior protezione del benessere degli animali, praticando l’eutanasia solo basandosi su una diagnosi ed una prognosi precisa, tenendo conto della qualità della vita dell’animale, nel rispetto di quest’ultimo e del suo proprietario, opponendosi a prolungare la sofferenza dell’animale ovvero ad accorciare la sua vita in base alla sola richiesta del proprietario. Su questa premessa è agevole comprendere che nel caso di specie si configuri un esercizio abusivo della professione in quanto pur in presenza del titolo, la stessa è stata esercitata con violazione dei principi etici fondamentali della specifica professione.

Avv. Silvia Assennato
Foro di Roma

 

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