Il Responsabile Civile ha intervistato la dottoressa Deborah Divertito, criminologa del conflitto e esperta in minori e disagio familiare.

Iniziamo con una domanda complessa: che cosa si intende per abuso sui minori?

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La domanda potrebbe avere in effetti una risposta molto lunga e avere più livelli di analisi, da quello giuridico a quello psicologico a quello sociologico. Quando si parla di abuso su minori siamo tenuti, generalmente, a pensare a quello sessuale. Questo ha senso nella misura in cui è la forma più terribile di violenza che si possa fare su di un minore, soprattutto se molto piccolo. Dal punto di vista giuridico, poi, la Convenzione di Lanzarote del 2007, recepita solo dopo sei anni dal nostro Paese, ha dato un importante contributo alla disciplina del reato di abuso sessuale, specificando altri reati connessi come l’adescamento, o eliminando attenuanti, come l’ignorare l’età della vittima. Detto questo, c’è tutto un mondo psichico del minore che andrebbe tutelato, ad esempio, anche da conflittualità familiari,  e quando ciò non avviene possiamo parlare di abuso. In sostanza, è tutto ciò che impedisce uno sviluppo armonico del minore e quando non si fa tutto il necessario per rendere meno traumatiche le circostanze in cui il minore è costretto a crescere.

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Dottoressa, secondo lei, le norme italiane tutelano il minore o andrebbero implementate?

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Come detto prima, la normativa italiana è stata migliorata recentemente con il recepimento della Convenzione Internazionale di Lanzarote proprio per la parte riguardante gli abusi sessuali sui minori. In particolare, sono stati riconosciuti alcuni reati come l’adescamento, la prostituzione minorile, la pedopornografia, anche on line, e l’induzione ad essa anche in luoghi pubblici, riconoscendo tutto ciò che va sotto la definizione internazionale del “child grooming”. C’è da dire che il codice penale prevedeva pene ritenute già adeguate, che di fatti non sono state toccate, ma la Convenzione ha aiutato sicuramente a mettere ordine nelle sottocategorie e a dare più specificità alle fattispecie di reato. In definitiva, è la solita storia italiana dello scollamento tra norme e applicazione, reso ancora più complicato dalla difficoltà di prova del reato, che, a parte i rari casi di fragranza, la linea è molto sottile, o l’abuso potrebbe essere portato alla luce dal minore solo dopo anni o, ancora, esiste il bisogno di bilanciare la necessità della prova con la tutela del minore.

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L’abuso sui minori non è un fenomeno a sé stante. Dietro può esserci un disagio forte che coinvolge i genitori. Si viene a creare così una spirale di concause del disagio tale da rendere difficile l’individuazione di un solo fattore. Ci parli di questo fenomeno.

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I sintomi dell’abuso sono aspecifici, non chiari, e possono non essere così frequenti come si possa immaginare. Ciò significa che un bambino che ha subìto un abuso sessuale mostra sintomi comuni a quelli presenti in un bambino che sta vivendo un disagio generico, non meglio specificato. Stiamo parlando, ad esempio, di repentini cambiamenti comportamentali quali: scarsa socializzazione, scarso rendimento scolastico, disturbi del sonno, inappetenza, timore dell’altro, regressione (enuresi, encopresi, nel linguaggio, ecc.). Le faccio un esempio: un bambino vittima di atti di bullismo a scuola avrà dei cambiamenti nel comportamento, come appunto un improvviso picco peggiorativo nel rendimento scolastico, o una scarsa autostima, o la tendenza ad isolarsi, che sono gli stessi di un bambino vittima di abuso sessuale. Benché il bullismo sia, comunque, un atto di prevaricazione e di violenza, è evidente che non è incasellabile nell’abuso sessuale, sia dal punto di vista psicologico che giuridico. Diverso è, invece, il caso di un bambino che pone in essere atti sessualizzati, non adeguati alla sua età.  E’ fondamentale, quindi, ascoltare il minore soprattutto in tutto ciò che non verbalizza, non comunica direttamente ed essere attenti anche ai dettagli, ma allo stesso tempo contestualizzare i comportamenti che mette in atto e avere uno sguardo analitico anche all’ambiente familiare e sociale in cui è calato quotidianamente.

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La prassi della messa in protezione a volte può risultare inefficace. Secondo lei, cosa si può fare per rendere meno traumatico per il minore l’allontanamento dall’ambiente familiare?

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Sicuramente, il primo passo che si deve fare quando un minore è vittima di abuso sessuale intra – familiare, è la messa in protezione del minore. Molto spesso, il provvedimento è d’urgenza, stiamo parlando giuridicamente di un procedimento ex art. 403, e non è possibile da parte dei servizi sociali un’analisi dettagliata della situazione familiare allargata del minore. Lo dico perché in alcuni casi, prima di collocare un minore in una casa famiglia, sarebbe più adeguato cercare risorse positive all’ interno della famiglia, in modo tale da porre il bambino in un contesto già conosciuto. Ma, come dicevo, l’urgenza, spesso,  non permette ciò. In tutti i casi, le case famiglia, almeno nei comuni in cui ho più esperienza, cioè quelli campani, vivono una situazione di continua emergenza economica, con ritardi quantificabili in anni dei pagamenti delle rette da parte delle istituzioni, con un importante turn over di operatori, con una rete socio-sanitaria non sempre all’ altezza degli interventi che andrebbero fatti, per diversi motivi che non sempre dipendono da loro, per cui basterebbe già implementare i servizi e dare loro le risorse necessarie, economiche, strutturali e professionali, per poter rispondere al meglio e in tempi più brevi alle esigenze e alla tutela del minore.

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