Quanto pesa la capacità di dimostrare concretamente la nocività dell’ambiente di lavoro quando si parla di casi di mobbing e di relative richieste di risarcimento? Ecco le precisazioni della Cassazione a riguardo.

Nel momento in cui si affronta il tema relativo a mobbing e risarcimento non bisogna mai dimenticare il peso che riveste la dimostrazione concreta della nocività dell’ambiente di lavoro nel quale il danno è stato subito.

A questo proposito, la Corte di Cassazione ha fornito degli importanti chiarimenti, specificando come in assenza di allegazioni di fatti rilevanti ai fini della valutazione delle condotte costituenti mobbing, non si può di certo procedere alla verifica puntuale della loro portata lesiva.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 15/4/2011, in riforma del provvedimento del Giudice di prime cure, aveva accolto la domanda di una dipendente.

Di conseguenza erano stati condannati l’ASL e il suo Direttore al pagamento di € 30.000,00 in favore della suddetta lavoratrice. Il tutto a titolo di risarcimento del danno biologico e del danno morale in seguito a condotte datoriali costituenti mobbing.

Il Giudice territoriale aveva liquidato i danni suddetti sulla scorta delle tabelle del Tribunale di Milano.

Tuttavia, aveva rigettato la domanda di risarcimento del danno esistenziale per carenza di prova.

Ed è questo il nodo cruciale della questione relativa al mobbing e al suo risarcimento.

Come noto infatti, la giurisprudenza definisce il mobbing come l’insieme di condotte reiterate e sistematiche volte a colpire il lavoratore nella sua dignità umana e professionale. Ciò avviene a mezzo di fatti illeciti e/o fatti leciti, che tuttavia considerati all’interno di un unico progetto mortificatorio e denigratorio, assumono un connotato di illeceità e quindi di abuso di diritto.

Ancora, la Suprema Corte afferma che la responsabilità del datore di lavoro per mobbing va inquadrata nella fattispecie normativa di cui all’art. 2087 c.c., e ricollegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze scientifiche del momento storico di riferimento.

Per tali ragioni, non bisogna mai dimenticare che il dipendente che lamenti di aver subito un danno a causa dell’attività professionale svolta ha l’onere di provare tre aspetti.

In primis, l’esistenza di tale danno. In secondo luogo, la nocività dell’ambiente di lavoro. Infine, il nesso di causalità tra l’uno e l’altro (Cass., Sez. Lav., sentenza n. 2038 del 29/01/2013).

Elementi che, nel caso di specie, risultavano assenti, come ben illustrato dall’approfondita analisi su tale argomento realizzata dall’Avv. Lucrezia Longobardi.

 

 

 

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