Nel 2016, all’esito del giudizio di secondo grado, la Corte di appello di Milano aveva dichiarato risolto per inadempimento il contratto di locazione di un monolocale tra le parti in causa e aveva altresì rigettato la domanda riconvenzionale di nullità del contratto e di restituzione dei canoni già versati dall’inquilina

Due anni prima la locatrice le aveva notificato un atto di intimazione di sfratto per morosità con contestuale citazione per la convalida, deducendo che nel 2011 le aveva concesso in locazione un monolocale di sua proprietà ad uso abitativo, composto da una zona giorno, un bagno, balcone e cantina sito in Milano.

Il contratto aveva durata di 4 anni, con canone annuo di Euro 5.040,00, oltre spese condominiali di Euro 1.200,00.

Senonché, dopo qualche tempo, la conduttrice aveva smesso di pagare il canone mensile di affitto e le spese afferenti al periodo agosto 2013-marzo 2014, risultando così debitrice per un importo complessivo di Euro 3.690,00.

Nel giudizio per la convalida dello sfratto, dopo essersi validamente costituita in giudizio, la convenuta deduceva che sin dall’inizio del rapporto contrattuale aveva riscontrato una serie di problemi di carattere strutturale e manutentivo all’interno dell’appartamento locatole, non a norma di legge.

I requisiti minimi di abitabilità

Si trattava della carenza dei requisiti minimi di abitabilità e vivibilità: l’immobile aveva una superficie (24,04 mq), un volume complessivo ed un servizio igienico di misure inferiori a quelle prescritti dal Regolamento Locale di Igiene, nonché un angolo cottura insufficiente per essere definito tale e anche privo di una canna di esalazione del diametro minimo previsto.

In un primo momento aveva confidato nel fatto che la situazione di precarietà dell’immobile potesse essere risolta dalla proprietaria, ma dopo essersi accorta che nulla sarebbe cambiato, aveva deciso di smettere di pagare l’affitto, non sentendo più il dovere di adempiere ad un rapporto, in assenza di controprestazione, tanto più che il canone di locazione – per un monolocale con le caratteristiche che descriveva – era troppo alto rispetto alla media.

Cosicché nello stesso giudizio presentava, in via riconvenzionale, domanda di accertamento e dichiarazione di nullità del contratto, essendo i requisiti minimi di abitabilità e vivibilità già viziati sin dalla data della sottoscrizione; con la conseguenza che tutti i canoni pagati dall’inizio non erano dovuti ed avrebbero dovuto esserle restituiti unitamente al deposito cauzionale (per complessivi Euro 11.200, oltre interessi).

In entrambi i giudizi di merito la domanda non trovava accoglimento; cosicché il processo proseguiva in Cassazione.

Dinanzi ai giudici di legittimità, nuovamente la ricorrente evidenziava l’assenza dei requisiti minimi di vivibilità ed agibilità indicati dal decreto ministeriale 5 luglio 1975 (che, all’art. 3 prevede che l’alloggio monostanza deve avere, se per una persona, una superficie minima comprensiva dei servizi non inferiore a mq. 28 e, se per due persone, una superficie non inferiore a mq. 38), recante disposizioni in relazione alle dimensioni minime ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione.

Non soltanto, ma le condizioni del monolocale sarebbero state altresì contrarie all’art. 41 Cost ed al Regolamento comunale in relazione ai necessari requisiti igienico sanitari.

Pertanto il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato nullo, perché contrario a norme imperative ai sensi dell’art. 1418 c.c.

Ma neppure per i giudici della Cassazione il ricorso meritava accoglimento.

Ed infatti, è jus receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio per cui, qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna delle parti di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia la parte che abbia usufruito del godimento dell’immobile non può pretendere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento, in quanto ciò importerebbe un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore. (Sez. 3, Sentenza n. 4849 del 03/05/1991).

Di tale principio, i giudici della corte territoriale avevano fatto buon governo laddove, nel respingere il ricorso della conduttrice, avevano asserito che:
a) il petitum, che contraddistingue l’azione (di nullità) promossa in primo grado in via riconvenzionale dall’allora appellante, non poteva trovare accoglimento in ragione della già avvenuta esecuzione delle contrapposte e reciproche prestazioni delle parti (e al riguardo richiama il principio affermato nella sentenza n. 4849/1991);
b) anche ammesso che vi fosse stata l’asserita violazione da parte della locatrice degli obblighi previsti dall’art. 1575 c.c., la conduttrice avrebbe potuto chiedere la risoluzione del contratto ovvero avrebbe potuto chiedere la diminuzione del canone pattuito (ma giammai avrebbe potuto chiedere la restituzione dei canoni già versati, come invece aveva fatto, così modificando la causa petendi).

La redazione giuridica

 

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