Una donna, incinta del quinto figlio, chiedeva ai medici di procedere, contestualmente al parto cesareo e all’intervento di sterilizzazione delle tube. 

Circa un anno dopo, però, restava nuovamente incinta e, decidendo di non interrompere la gravidanza, dava alla luce il suo sesto figlio. Allora, insieme al marito, si rivolgeva al Tribunale di Reggio Emilia, chiedendo il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti a causa della nascita indesiderata del figlio. La difesa della USL convenuta si fondava su tre punti:

  • la donna all’atto del prericovero non avrebbe richiesto di essere sottoposta a sterilizzazione tubarica;
  • dalla lettera di dimissioni sarebbe emerso chiaramente il fatto che tale intervento non era stato eseguito;
  • la donna avrebbe potuto abortire ai sensi della n. 194/1978.

Il Giudice rigettava tutte e tre le obiezioni, osservando che:

  • al contrario, al momento del prericovero, la donna aveva sottoscritto l’apposito modulo con cui dichiarava di autorizzare il personale medico del reparto di ostetricia a praticare la sterilizzazione tubarica;
  • la mancata indicazione, nella lettera di dimissioni, dell’effettuazione dell’intervento sterilizzatorio non poteva essere considerata sufficiente a “mettere gli attori, peraltro stranieri, in condizione di comprendere che il richiesto intervento di sterilizzazione … non era stato eseguito”;
  • l’aborto è, per il nostro ordinamento, un diritto, non un obbligo.

Il Tribunale di Reggio Emilia accoglieva pertanto la domanda della donna, riconoscendo che la nascita indesiderata del sesto figlio le aveva causato un danno non patrimoniale, consistente nello stravolgimento dei ritmi di vita, con conseguenti stress e disagio. Il risarcimento è stato invece negato al padre, non avendo lo stesso né allegato né provato quali fossero stati i concreti riflessi della nascita del figlio sulle sue abitudini di vita.

Dalla vicenda possono trarsi alcune considerazioni. In primo luogo, laddove vi sia una richiesta di intervento all’atto del prericovero, adeguatamente corredata da pertinente modulo di consenso informato, la domanda risarcitoria non può essere inficiata dal raffronto con quanto descritto nella lettera di dimissioni: nel caso di specie non si spiegava la ragione del mancato intervento; ci si chiede se un’adeguata motivazione sul punto avrebbe potuto giocare a favore dell’USL convenuta (a prescindere dal problema della nazionalità degli attori – che suggerirebbe la peraltro opportuna sistematica traduzione – tanto dei moduli di consenso informato, quanto delle lettere di dimissioni).

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La volontà del “paziente” è sovrana, oppure esistono (e se sì, entro quali limiti) spazi per la valutazione del medico, massima se orientata a non intervenire per non mettere in pericolo l’incolumità e l’integrità fisica del soggetto – quando non si tratti, è chiaro, di interventi per altro verso necessari? Per accennare appena ad un problema troppo complesso da affrontare in questa sede, l’obiezione di coscienza del ginecologo sarebbe da considerare valida ragione del mancato intervento?

Secondariamente, di certo l’aborto non è un obbligo, e sebbene l’art. 1227II C.C. obblighi il creditore ad evitare di aggravare la posizione del debitore, esso si limita all’ordinaria diligenza: in altre parole impone al creditore soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici per il creditore stesso (come, appunto – secondo il Giudice – l’aborto, comportante un sacrificio per la salute e per la libera autodeterminazione della madre).

Decisamente più interessante – perché dipendente da un principio generale che travalica la singola fattispecie – è il motivo del rigetto della domanda risarcitoria del padre. Egli non avrebbe allegato (cioè, uscendo per una volta dal linguaggio giuridico, non avrebbe affermato) di aver subito un danno non patrimoniale dalla nascita indesiderata. Già questo sarebbe sufficiente, ma il Giudice va oltre e, correttamente, stabilisce che il danno che si sostiene di aver subito, non solo deve essere affermato, sibbene anche provato. La teoria del “contatto sociale”, anch’esso da dimostrarsi a carico di chi asserisce d’essere stato danneggiato, non esime affatto questi dal dar prova di tale danno ed allegare (cioè, come si diceva, affermare, sostenere) che esso sia conseguenza dell’azione od omissione del medico e/o della Struttura Sanitaria.

I soggetti accusati, per parte loro, potranno difendersi dimostrando che l’evento-danno non ha rapporti causali con il loro operato (qui, non vertendosi nel più classico caso di insorgenza o peggioramento d’una patologia a seguito dell’operazione, la prova di aver agito secondo diligenza non rileva, a meno che si tratti della diligenza nell’eseguire le richieste del paziente).

Ma cosa dunque si deve allegare e provare per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale da nascita indesiderata? Dalla sentenza (di merito, è bene sottolineare, quindi astrattamente ancora modificabile) si può ricavare ciò: di aver subito un importante cambiamento di stile e ritmo di vita, un forte stress fisico e mentale, nonché un disagio familiare e sociale.

Ciò detto, qualche perplessità rimane: in primo luogo, le tre espressioni (“importante cambiamento di stile e ritmo di vita”, “forte stress fisico e mentale”, “disagio familiare e sociale”) sono un semplice artificio retorico per designare lo stesso concetto, oppure tre figure distinte che debbono concomitantemente rinvenirsi? In questo ultimo caso, la prova di una o due sole di esse non sarebbe sufficiente ad ottenere il risarcimento.

Da un punto di vista logico, siccome ogni nascita comporta un cambiamento nello stile e nei ritmi di vita della madre e della famiglia, e siccome il disagio familiare e sociale è pressocché sempre fonte di stress, almeno mentale, propenderei per interpretare la “massima” come richiedente la prova di una sofferenza fisico-psichica, le cui cause possono essere individuate nei cambiamenti individuali e familiari, nonché nel disagio relazionale, senza peraltro che dette cause costituiscano una elencazione tassativa dell’eziologia dello stress.

Secondariamente, riallacciandosi alla già vista recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sulla necessaria personalizzazione del danno, pare opportuno osservare che le tre succitate espressioni dovrebbero, per coerenza, essere rapportate alla situazione concreta, soprattutto del genitore (o dei genitori), certo; ma anche della famiglia nel complesso; se è così, si consideri che la madre ha asserito come la nascita del sesto figlio avrebbe messo a dura prova la situazione economica ed umana della famiglia e l’avrebbe esposta ad un elevato stress fisico e mentale, certificato dalla comparsa di “evidente edema al dorso delle mani e dei piedi, alla regione orbitaria bilateralmente” e di “orticaria allergica ed edema diffuso sottocutaneo. Concludo con una domanda che si situa ai confini della responsabilità medica: “quid iuris” se a chiedere il risarcimento non fossero stati i genitori, ma uno dei primi cinque figli?.

Avv. Danilo Droghetti

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