È stata confermata anche in appello la condanna emessa dai giudici di merito nei confronti di una società per le ripetute offese rivolte ad un dipendente per la sua presunta omosessualità

Tali fatti si sarebbero verificati tra il 2001 e il 2007, data del suo licenziamento. Le offese e le condotte vessatorie sarebbero state poste in essere dal legale rappresentante della società nei confronti del proprio dirigente e confermate da tutti i testimoni ascoltati in giudizio.

Cosicché, in primo grado, la società era stata condannata a risarcire il danno non patrimoniale subito dal dipendente. Questi aveva allegato in giudizio lo “stato di ansia e di stress, il pregiudizio alla vita di relazione, il pregiudizio alla dignità e alla sua professionalità visto anche il ruolo assunto all’interno della azienda e il fatto che gli epiteti spregiativi erano sempre ripetuti nei suoi confronti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali egli non era in grado di reagire “.

Tutte queste circostanze erano state ritenute provate in via presuntiva.

La sentenza veniva confermata anche in appello.

A detta dei giudici della corte territoriale le condotte poste in essere dal legale rappresentante della società non erano solo espressione di un clima scherzoso nell’ambiente di lavoro; al contrario esse – proprio perché ripetutamente poste in essere dal titolare della società nei confronti di un dipendente che, sebbene avesse qualifica dirigenziale, era comunque in una condizione di inferiorità gerarchica (e, difatti, mai aveva reagito alle altrui offese) – esprimevano un atteggiamento di grave mancanza di rispetto e quindi di lesione della personalità morale del lavoratore.

Il ricorso per Cassazione

Per la società ricorrente, la corte di merito avrebbe commesso un errore di valutazione: quello di aver ritenuto provato il danno non patrimoniale sulla base di semplici presunzioni; lo avrebbe cioè desunto dagli elementi probatori raccolti in ordine al contenuto delle offese, alla loro reiterazione, alle modalità e ai contesti in cui le stesse erano state arrecate ed anche in relazione alla difficoltà di reazione per essere quest’ultimo in una condizione di inferiorità gerarchica.

Non sono d’accordo i giudici della Cassazione!

È principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 11269 del 2018; n. 7471 del 2012) quello per cui il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non possa mai ritenersi “in re ipsa”, ma vada debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici;
Le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 26972 del 2008, hanno affermato che il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto-reato, né ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Nel caso di specie, la Cassazione concorda con l’accertamento effettuato dalla Corte di merito poiché, coerente con la giurisprudenza di legittimità che reputa veicolato dall’art. 2087 c.c. l’obbligo di tutela nel contratto di lavoro di interessi non patrimoniali presidiati da diritti inviolabili della persona, come appunto la salute e la personalità morale, con conseguente obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale ove l’inadempimento datoriale abbia provocato la lesione dei medesimi (per tutte cfr. Cass., S.U., n. 26972 del 2008).

Assume anche rilievo il danno alla reputazione del lavoratore dipendente.

A tal proposito, vale la pena rammentare che la Cassazione ha precisato come il danno recato alla reputazione, da inquadrare nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., debba essere inteso in termini unitari, senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, non concepibili alla stregua di beni diversi e pertanto non suscettibili di distinte domande risarcitorie, trovando la tutela di tale diritto – a prescindere dall’entità e dall’intensità dell’aggressione o dal differente sviluppo del percorso lesivo – il proprio fondamento nell’art. 2 Cost. e, in particolare, nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale. (Cass. n. 18174 del 2014).

Sulla stessa linea si pongono le pronunce che ravvisano la risarcibilità del danno non patrimoniale in caso, ad esempio, di licenziamento ingiurioso, tale per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, da risultare lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato (Cass. n. 23686 del 2015; n. 15496 del 2008).

A nulla è servito, dunque, per la società eccepire la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in materia di presunzioni, dovendo farsi applicazione dell’ulteriore principio di diritto (Cass. n. 15737 del 2003; 722 del 2007; Cass. n. 8023 del 2009), secondo cui le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento.

Peraltro si tratta di una valutazione che spetta solo al giudice di merito e, come tale, non è sindacabile in sede di legittimità.

Dott.ssa Sabrina Caporale

 

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